Festa della mamma

Vogliamo celebrare la festa della mamma raccontando una storia vera, per l’esattezza un Case Report pubblicato alcuni anni fa. Il caso di una giovane mamma che ha accettato di rischiare la propria vita per mettere al mondo la creatura che portava in grembo. Tutte le mamme corrono dei rischi, la differenza sta però nel fatto che questa donna di ventisei anni sapeva di essere affetta da una rara malattia genetica, la malattia di von Willebrand (VWD). Si tratta di una coagulopatia ereditaria che può ridurre la quantità o la funzione del fattore di von Willebrand (VWF), proteina plasmatica fondamentale per la coagulazione del sangue, e provocare anche emorragie fatali.

La preoccupazione dei medici

Piastrine nel sangue

Fu proprio in virtù di questa patologia che si decise di far seguire la donna, durante la gravidanza, a un team multidisciplinare di ostetriche, ematologi e anestesisti. Non solo, in accordo con lei, i medici disposero meticolosi piani di cura per tutte le fasi gestazionali, incluso il post-partum.  La mamma fu sottoposta a controlli periodici e a continue verifiche dei livelli delle piastrine, proteine necessarie a evitare emorragie, sia interne che esterne all’organismo. 

La malattia non si ferma, la mamma neppure

Durante la gravidanza, quando i medici rilevarono una riduzione progressiva e inesorabile delle piastrine, decisero di indurle il travaglio in anticipo. L’obiettivo era proprio evitare un ulteriore peggioramento della trombocitopenia. Così, all’inizio del travaglio, vennero richieste quattro unità di piastrine.

Nonostante quanto si era predisposto, la paziente entrò poi in travaglio spontaneo. Le vennero subito trasfuse due unità di piastrine e la donna partorì un maschio sano di tre chili con un punteggio di Apgar di 9. La perdita di sangue al momento del parto risultò nella norma.

La diagnosi di una malattia rara

La rarità di queste patologie le rende molto difficili da gestire, anche perché spesso mancano le competenze per effettuare diagnosi corrette e tempestive. Ci auguriamo che questo raro caso possa fornire qualche indicazione in più sia ad ostetriche ed ematologi. I medici che hanno assistito questa donna raccomandano di includere la ricerca del fattore di von Willebrand negli esami da suggerire alle donne gravide che presentino trombocitopenia per la prima volta. Del resto, è opinione di molti medici che se la malattia di Von Willbrand di tipo piastrinico fosse sufficientemente investigata, sarebbe molto più comune di quanto lo è oggigiorno.

La mamma è uno sguardo d’amore e una carezza che cura. Da grandi impariamo a farne a meno ma, a qualunque età, ogni tanto un pensiero vola alla persona che ci ha dato la vita.”

Carola Pulvirenti

L’obesità: fattore di rischio per forme gravi di Covid-19

Studi recenti hanno dimostrato che l’obesità rappresenta un fattore di rischio di significativa importanza per le forme gravi di Covid-19. A tal proposito, la World Obesity Federation ha evidenziato un dato di grande rilievo. Dei 2.5 milioni di decessi per Covid-19 registrati entro la fine di febbraio 2021, 2.2 milioni si sono verificati in paesi in cui più della metà della popolazione è sovrappeso. Le persone obese avrebbero un rischio di contrarre il coronavirus 1.5 volte maggiore rispetto alle persone non obese. 2.1 volte maggiore sarebbe il rischio, per loro, di essere ricoverate in ospedale e 1.7 volte maggiore di finire in terapia intensiva. Anche il rischio di morte sarebbe più alto: circa 1.5 superiore rispetto ai normopeso.

Uno studio condotto in Messico

Vale la pena considerare gli esiti di uno studio recentemente condotto in Messico che ha passato in rassegna i decorsi clinici di oltre 15.000 pazienti Covid-19 ospedalizzati e non. Il risultato è stato un tasso di mortalità quasi triplo per i pazienti obesi. Non solo, se all’obesità si accompagnavano ipertensione, diabete o immunodeficienza questo fattore di rischio si faceva ancora più significativo. Il tasso di mortalità per Covid-19 in Messico sarebbe altissimo proprio perché lì tre quarti della popolazione al di sopra dei 20 anni è sovrappeso o obesa. 

Relazione tra IMC e severità della malattia

Dall’analisi condotta è, dunque, emersa una relazione tra Indice di Massa Corporea (IMC) e severità della malattia. Rischi più bassi si sono osservati nei pazienti normopeso e sovrappeso, mentre più complessa sarebbe la situazione per gli individui con IMC superiori a 30. Stando a questi dati, la necessità di ricovero aumenterebbe del 33% per IMC superiori a 45, mentre il rischio di morte del 60% per i pazienti con IMC più alto di 35.

Uno studio condotto in Gran Bretagna

Risultati simili sono stati riscontrati anche in uno studio effettuato in Gran Bretagna su circa 7 milioni di pazienti. Da questa analisi è emerso che vi è un aumento lineare del rischio di Covid-19 grave sia per chi è sottopeso che per chi è sovrappeso o obeso. Allo stesso modo, il rischio di ammissione in terapia intensiva è superiore per gli IMC maggiori di 23, ma inferiore per quelli al di sotto di questo valore.

ll ruolo dell’attività fisica

Inutile aggiungere che una regolare attività fisica riduce i fattori di rischio di contrarre forme severe di Covid-19. Un’analisi condotta in California, su poco meno di 50.000 casi positivi di Covid-19, ha evidenziato tra gli inattivi rischi di ospedalizzazione, ammissione in terapia intensiva e decesso significativamente più elevati rispetto a coloro che svolgevano almeno 150 minuti di attività fisica alla settimana. Questa ricerca apre il campo a nuove possibilità di studio, allo scopo di individuare dati predittivi di un maggior rischio di contrarre forme severe della malattia. La strada è ancora in salita, ma la scienza non si ferma.

BB

Coccole per tutti

La sessualità può essere meravigliosa a qualunque età, anche in vecchiaia. Tuttavia parlarne può creare disagio e scalpore. “Let’s Talk The Joy of Later Life Sex”, è la campagna sul sesso nella vecchiaia portata avanti dal noto fotografo di moda Rankin  con i suoi scatti a coppie di anziani in atteggiamenti intimi. L’aspetto cruciale della sessualità – al di là di quanto concerne la procreazione – è la relazione umana, il piacevole contatto che coinvolge non soltanto gli organi riproduttivi, ma la persona tutta. Tutto il corpo, ogni centimetro di esso, è interessato in questo misterioso processo. E, inutile dirlo, una relazione fisica appagante e sciolta gioca un ruolo fondamentale sotto ogni aspetto. Sia per la salute fisica ed emotiva, sia per il mantenimento della complicità con il partner e questo è un elemento chiave per una vita felice, ad ogni età.

Cosa cambia dopo i sessant’anni

Tuttavia il 60% degli ultrasessantacinquenni si sente a disagio nel parlare apertamente di sesso e intimità. Questo è il risultato di un sondaggio dell’ente benefico britannico Relate, che offre terapia relazionale e consulenza per coppie, famiglie e giovani. Per rompere questo tabù, Relate ha lanciato una nuova campagna chiamata “Let’s Talk The Joy of Later Life Sex”. La mente creativa è il noto fotografo di moda britannico Rankin. “Rankin ha filmato e fotografato cinque coppie anziane e una donna, nelle loro situazioni più intime, per far riflettere le persone sul sesso e sull’intimità in età avanzata”. – ha commentato Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”- Queste foto rappresentano Andrew e Mark, che stanno insieme da 31 anni, Roger e la sua compagna Chrissie, che ha subito una doppia mastectomia, o Daphne e Arthur, che si tengono ancora per mano mentre vanno a fare una passeggiata. “Abbiamo tutti bisogno di intimità ora più che mai. L’età è davvero solo un numero”, sottolinea Rankin, che ha girato la campagna gratuitamente. Il nostro amore e affetto non devono necessariamente diminuire con la vecchiaia. Secondo il fotografo, la pubblicità non ritrae adeguatamente l’intimità della vecchia generazione.

Carola Pulvirenti

Leggi anche Malattie rare della pelle, l’impatto sulla sessualità 

ll racconto di mamma Rosalia

Il 16 ottobre del 1978 eravamo sposati da appena un mese, quando per strada, vedendo parecchia gente in un bar, davanti alla televisione accesa, ci fermammo a sentire: “Habemus Papam!”. Apparso sulla loggia, un uomo di cinquantotto anni, in abiti da pontefice, sorrise emozionato e con un accento un poco strano, lasciò il suo primo saluto al mondo: “Se mi sbaglio, mi corrigerete!”. Era Papa Karol e aveva già conquistato il cuore di milioni di persone.

Carola

Alla nostra primogenita avevamo già stabilito di dare il nome della Madonna, Myriam. Nel 1980, però, alla secondogenita decidemmo di dare, senza esitazioni, proprio il nome di battesimo di Papa Karol. Una delle partecipazioni per la nascita della bambina fu inviata anche a lui. Volevamo dirglielo che la nostra piccola portava il suo nome. Volevamo che il Papa si ricordasse delle famiglie, perché ne avevano tutte tanto bisogno. Che esperienza spericolata era stata la nostra! Mettere su famiglia pur lavorando entrambi e fare due figli in due anni senza alcun aiuto!

Un cenno ci giunse, tempo dopo, attraverso il Vescovo di Catania andato in visita dal Pontefice. In una lettera ai genitori, egli aveva raccontato del suo incontro: il Papa gli aveva chiesto se in Italia qualcuno avesse il nome Carola. “Sì, Santità” – aveva risposto il vescovo – “e la piccola è stata chiamata così in suo onore”. Insieme a questa notizia, ci arrivò anche la benedizione per la Carola e tutti i suoi familiari. Cinque anni dopo, avremmo avuto la preziosa opportunità di incontrarlo personalmente a Castelgandolfo. Nella foto si vede Carola che tenta di sfuggire alla tenera mano del papa per tornare dalla mamma. 

Chi era Papa Karol?

Chi ha conosciuto quel Papa lo ricorda come un uomo forte e libero (non è un caso che sia proprio quello il significato del suo nome!), capace di rivolgersi alla gente in un modo talmente speciale da essere ricambiato da fortissimo entusiasmo.

Era stato, nel mondo, attore, operaio, poeta, sportivo e aveva portato nella sua missione tutte le grandi esperienze della sua vita. Com’era commovente e intenso nel suo modo di pregare, com’era aperto al dialogo, com’era attento alle questioni di fede, di morale, di dignità e libertà di uomo e donna. Aveva il dono di rivolgersi a tutti come se stesse parlando personalmente con ciascuno. Amò intensamente i giovani e ne fu riamato.

Col Totus tuus riportò in auge il culto alla Madre di Dio, poi rinnovò il Rosario inventandosi cinque nuovi misteri della luce e fu lui ad istituire la Festa della Divina Misericordia. Delle sue quattordici encicliche, così belle e innovative e tutte scritte con la mente e col cuore, molte hanno lasciato una scia indelebile nella nostra società e cultura: Redemptor Hominis, Redemptoris Mater, Evangelium Vitae, Centesimus Annus… 

Fu lui, cominciando a visitare personalmente Paesi dove un Papa non era mai stato prima, a rafforzare il concetto di Chiesa Universale. Famosa anche la sua invettiva contro gli assassini mafiosi durante la visita in Sicilia del 1993. Lavorò moltissimo per la pace, non solo favorendo il dialogo con ortodossi ed anglicani, ma impegnandosi perché venisse riconosciuto lo Stato d’Israele. Quello che chiedeva era che tutti i Paesi rispettassero la libertà religiosa di ognuno.

Il suo ruolo nella storia

Può darsi che le nuove generazioni lo ricordino attraverso libri di storia. Molti non amano ammetterlo, ma fu proprio il Papa Karol uno dei principali protagonisti della dissoluzione dell’URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche). Quando cominciò a dare il suo sostegno a Solidarnòsc, sindacato polacco di ispirazione cristiana, nessuno ancora riteneva possibile che il comunismo internazionale potesse collassare. Eppure, dieci anni dopo la sua elezione, mentre in Cina le insurrezioni venivano represse nel sangue, Giovanni Paolo II, grazie a un’audace azione diplomatica presso Gorbaciov, riuscì in questo miracolo.

Era la fine della Guerra Fredda, cadeva il muro di Berlino, nasceva la Russia cristiana, e la Polonia e le altre Repubbliche diventavano libere e democratiche. Anni prima, Papa Karol aveva rischiato di pagare col sangue la sua partecipazione a quella storia cruenta: l’attentato del 13 maggio 1981, commissionato dal KGB, lo ridusse in fin di vita. 

Quando il 2 aprile 2005 la sua vita si concluse, la commozione del mondo fu senza precedenti: lunghissime file di persone composte e silenziose resero omaggio alla sua salma in San Pietro. Il solenne funerale fu celebrato dal suo “amico fidato”, il Cardinale Ratzinger che nel 2011, nelle vesti di pontefice, l’avrebbe poi proclamato Beato. Solo quattro anni dopo sarebbe arrivata la santificazione.

A tutti è sempre stato chiaro quanto grande e soprannaturale fosse il suo amore per Dio e per gli uomini tutti. Questo eroico Papa non è, certo, riuscito a mettere fine a tutti i mali del mondo e neanche a tutti quelli che attanagliano la stessa Chiesa, ma ha restituito a tantissimi battezzati la gioia e l’orgoglio di essere cristiani. È forse proprio questo l’impegno che ha lasciato in eredità a ciascuno di noi.

Rosalia Pulvirenti Azzaro

L’efficacia della campagna vaccinale

Le campagne di vaccinazione contro il Covid-19, anche se cominciate da poco, stanno già riducendo i danni significativi del virus nella popolazione. Nelle vaccinazioni di massa, si sa, ci sono una serie di parametri che devono verificare l’efficacia di un vaccino. Mentre, però, gli studi per lo sviluppo del farmaco si effettuano su una popolazione di numero ridotto (vedi riquadro), quelli post-commercializzazione coinvolgono, invece, un numero di persone molto più elevato, incluse quelle ammalate e con fattori di rischio, il che rende i risultati di questi ultimi test di gran lunga più affidabili. Sono stati pubblicati in questi giorni alcuni dati confortanti relativi ad un vaccino ad m-RNA, dati che confermerebbero quelli prodotti durante lo sviluppo clinico del vaccino. Descriviamo, di seguito, proprio l’esito di questi studi.  

Fonte: Eupati Italia, Scoperta e Sviluppo dei farmaci

(Fonte: Eupati Italia, Scoperta e Sviluppo dei farmaci)

La conferma nei dati

Il New England Journal of Medicine, una delle più prestigiose riviste di medicina nel mondo, ha recentemente pubblicato uno studio post-commercializzazione molto interessante per i suoi esiti. Analizzati i dati desunti da due gruppi di quasi seicentomila persone ciascuno (596.618) – vaccinate in uno e non vaccinate nell’altro -, i ricercatori hanno rilevato una sensibile riduzione delle forme gravi della malattia nel gruppo di vaccinati. Queste considerazioni si sono basate, è bene tenerlo presente, su ben cinque parametri di efficacia: infezione documentata con sindrome respiratoria acuta severa (Sars-CoV-2); infezione sintomatica Covid-19; ospedalizzazione dovuta all’infezione; malattia severa; morte.

L’efficacia stimata del vaccino, a partire da sette giorni dopo la seconda dose (follow up), è stata calcolata al 90% per tutti i parametri considerati. L‘infezione da Covid (ridotta del 92%), i sintomi del Covid (del 94%), la necessità di ricovero ospedaliero (del 87%), la malattia grave (del 92%).

Non solo, la grande dimensione del campione studiato ha anche permesso di stimare l’efficacia del vaccino per sottopopolazioni specifiche, aspetto che gli studi precedenti non potevano valutare. Questi risultati rafforzano l’aspettativa che i nuovi vaccini approvati possano aiutare a mitigare i disastrosi effetti della pandemia Covid-19.

Carola Pulvirenti

 

Scrivere dentro le righe

Alcuni bambini hanno difficoltà a scrivere dentro le righe o nei quadretti, altri scrivono lettere troppo grandi o troppo piccole, alcuni di loro non rispettano i margini del quaderno, ed altri ancora colorano in modo non omogeneo, sono spesso lenti nello scrivere e poco organizzati nell’organizzazione del lavoro. In questi casi si parla di disgrafia: un disturbo specifico dell’apprendimento che riguarda le competenze grafiche e motorie. Ma non solo, dietro la disgrafia si cela un mondo da scoprire, quello dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA). I DSA si manifestano in età evolutiva e riguardano la scrittura, la lettura, i numeri e i calcoli.

Non è patologia ma neurodiversità

E’ bene precisare che i DSA non sono espressioni patologiche, ma forme di neurodiversità. Nei bambini con questi disturbi, in alcune specifiche aree dell’apprendimento, si mette in atto un funzionamento neurologico differente, sono presenti capacità cognitive integre adeguate all’età. La legge 170/2010 riconosce quattro disturbi dell’apprendimento: dislessia, disortografia, disgrafia, discalculia e tutela il diritto allo studio per chi ne presenta, prevedendo all’occorrenza misure didattiche di supporto. Si stima che un 4-5% di alunni presentano uno o più disturbi specifici dell’apprendimento.

La disgrafia

La disgrafia è il disturbo legato alla scrittura di parole e di numeri e si manifesta anche nel disegno. La difficoltà si mostra di solito nel tratto e nell’uso dello spazio e della direzione. Il bambino disgrafico ha difficoltà a copiare, ad impugnare una penna o una matita; il suo tratto varia, il movimento della sua scrittura non è fluido; i caratteri non tengono conto delle righe o dei quadretti; le lettere diventano o troppo grandi o troppo piccole e non vengono rispettate le regole di grandezza e differenza delle lettere, né i margini, né l’allineamento delle parole, procedendo lo scritto in salita o in discesa. Il testo risulta, quindi, disordinato e spesso illeggibile. Non solo. Il bambino presenta anche difficoltà nella scrittura dei numeri e soprattutto difficoltà nell’incolonnamento. Il disegno è spesso essenziale e potrebbe presentarsi inadeguato rispetto all’età: il colore, per esempio, si presenta con tratti forti e continue inversioni.

Come intervenire

Molte sono le terapie e i processi riabilitativi. Per certo, è fondamentale lavorare su specifici esercizi che permettano di acquisire un adeguato coordinamento della mano per una corretta motricità, di lavorare sull’organizzazione dello spazio, sull’equilibrio e sul coordinamento. Non solo. Altrettanto importante è lavorare contemporaneamente su esercizi di lettura e ortografia. Si possono usare, a questo scopo, degli strumenti compensativi: quaderni con bande colorate per l’organizzazione e la direzione dello scritto, oppure programmi appositi al computer. Tutti gli interventi devono essere mirati, perché, come anticipato, dietro la diagnosi di DSA c’è una specifica espressione della problematica. Non tutti i DSA, infatti, presentano le stesse caratteristiche, anche in virtù del fatto che dietro ogni bambino c’è una storia, un vissuto.

Autostima e motivazione

Molti alunni con DSA si confrontano con l’insuccesso, spesso sono demotivati e, davanti alla difficoltà o alla frustrazione che si determina in ambito scolastico, vivono un senso di impotenza e di conseguenza rispondono con un rifiuto. È importante lavorare sugli aspetti personali ed emotivi della persona disgrafica, sulla sua autonomia, sull’ autostima e sulla motivazione. L’intervento sulla persona è un intervento anche sulla famiglia. Il lavoro deve essere integrato ed è quindi è imprescindibile la collaborazione con la scuola, affinché il processo riabilitativo sia condiviso e partecipato.

 

Alessia De Camillis

Psicologa Psicoterapeuta

Il punto su AstraZeneca

É notizia di oggi che l’Agenzia Europea del Farmaco potrebbe non rinnovare il contratto, in scadenza a giugno, con la farmaceutica AstraZeneca. Il motivo, secondo le dichiarazioni del commissario europeo Breton, non sarebbero i rari effetti avversi, ma la scarsa quantità di dosi consegnate. La casa farmaceutica, infatti, non avrebbe rispettato il contratto con l’Inghilterra avendo lasciato solo il 30% delle dosi previste. Nel frattempo, proseguono le indagini sui diversi casi di eventi trombotici e trombocitopenie sviluppati dopo la vaccinazione con Vaxzevria di AstraZeneca. Nonostante si sia trattato di eventi molto rari, le autorità sanitarie di Germania e Francia hanno deciso che chi ha già ricevuto la prima dose di vaccino AstraZeneca riceverà la seconda di Pfizer/BioNTech o Moderna. Anche il vaccino Johnson & Johnson, in rari casi, avrebbe provocato lo stesso meccanismo patologico. Così, negli Stati Uniti, le autorità sanitarie ne avrebbero raccomandato la sospensione precauzionale. Al momento l’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) sta esaminando il caso.

La trombocitopenia immune

Con quale meccanismo si sviluppa, dunque, la trombosi dopo il vaccino? Secondo uno studio, pubblicato da pochi giorni sul New England Journal of Medicine, la causa sarebbe da cercarsi in un processo già noto al mondo scientifico. Si tratta della trombocitopenia immune. La trombosi post vaccino appare del tutto simile alla Trombocitopenia Immune Indotta dall’Eparina (HIT).

La HIT è causata da una reazione immunitaria diretta contro un fattore piastrinico e leparina iniettata al paziente. Questo complesso immunitario attiva le piastrine circolanti e ne causa un consumo eccessivo, aumentando di conseguenza la coagulazione del sangue. É per queste ragioni che la comunità scientifica ha denominato la trombosi post AstraZeneca VITT5, trombocitopenia trombotica immune indotta da vaccino.

Covid o Astrazeneca

Per quanto riguarda questo vaccino, il Centro Winton dell’Università di Cambridge ha elaborato dei dati confrontando i rischi che corre chi si vaccina con quelli che corre chi non lo fa. Dallo studio risulterebbe chiaro che i benefici della vaccinazione superano in modo significativo i suoi potenziali rischi.

Per le persone tra i 20 e i 29 anni, il rischio di ammalarsi gravemente di Covid-19 è sette volte maggiore del rischio di avere gravi effetti collaterali legati al vaccino. Questo rischio, chiaramente, aumenta in maniera esponenziale con l’aumentare dell’età, divenendo 30 volte maggiore per i trentenni, 100 volte maggiore per i quarantenni, 240 volte maggiore per i cinquantenni, 640 volte maggiore per i sessantenni. Il modello non calcola il rap­porto rischio-beneficio per le fasce di età superiori, che ovviamente è ancora più sbilanciato a favore del vaccino. Basti pensare che in Italia gli over 70 sono il 17.4% della popolazione complessiva, ma rappre­sentano l’86% del totale dei decessi per Covid-19.

Perché i dati non ci convincono

Dunque i numeri sembrano incoraggianti, tuttavia molte persone non sono convinte ed hanno disdetto l’appuntamento per il vaccino. Questo tema cruciale è stato affrontato mercoledì scorso dal dottor Pierluigi Spada che, dall’inizio della pandemia offre su Panacea un’informazione alla portata di tutti ma basata sulle evidenze scientifiche: “Noi medici lavoriamo tanto con i numeri, – afferma Spada – ma le persone hanno poco chiara la forza dei numeri, non li trovano convincenti, nonostante vengano continuamente riproposti.

Il motivo di questo atteggiamento lo ha spiegato la Dott.ssa Rosaria Calia, psicologa psicoterapeuta: “La storia del singolo è molto più convincente dei numeri, perché racconta l’emozione. Il numero è qualcosa che rimane fine a se stesso. É più facile per le persone identificarsi nell’unico episodio che è stato portato all’attenzione da tutti i giornali, perché ci si identifica in quella donna, in quell’uomo. Il numero, invece, rappresenta qualcosa di poco coinvolgente.”

Le indicazioni delle autorità sanitarie italiane

Le informazioni su questo tema sono in continuo aggiornamento, e c’è costante attenzione per le indicazioni del Ministero e dell’Agenzia Italiana del Farmaco. Cosa dovrà fare chi ha già ricevuto la prima dose? Sul comunicato pubblicato il 7 aprile dal Ministero si legge che, in virtù dei dati ad oggi disponibili, chi ha già ricevuto una prima dose del vaccino Vaxzevria può completare il ciclo vaccinale col medesimo vaccino. Intanto l’AIFA, in collaborazione con l’EMA, continuerà l’attenta valutazione di qualsiasi segnale di sicurezza anche al fine di formulare eventuali ulteriori raccomandazioni.

Carola Pulvirenti

La sessualità come bisogno primario

Insieme ai bisogni di aria, acqua, cibo e sonno, anche l’attività sessuale è un bisogno primario fisiologico dell’uomo. Lo affermava Abraham Maslow, noto psicologo statunitense che a metà Novecento stilava il Modello Gerarchico dei Bisogni Umani. L’aspetto cruciale della sessualità – al di là di quanto concerne la procreazione – è la relazione umana, il piacevole contatto che coinvolge non soltanto gli organi riproduttivi, ma la persona tutta. Tutto il corpo, ogni centimetro di esso, è interessato in questo misterioso processo. E, inutile dirlo, una relazione fisica appagante e sciolta gioca un ruolo fondamentale sotto ogni aspetto. Sia per la salute fisica ed emotiva, sia per il mantenimento della complicità con il partner.

L’organo chiave dell’affettività

Di recente alcuni ricercatori, mentre investigavano certi aspetti della fisiologia della pelle e la loro relazione con il senso del tatto, hanno compiuto una scoperta fondamentale. Essi avrebbero individuato nella cute un sottoinsieme di fibre tattili deputate a rispondere ai tocchi delicati, le Fibre afferenti C tattili, che processerebbero le informazioni riguardanti sensazioni e sentimento. Non solo, avrebbero messo in luce le straordinarie potenzialità della carezza di attivare il rilascio di dopamina e ossitocina, due ormoni collegati rispettivamente al buonumore e alla sensazione di piacere. Grazie anche a questa scoperta oggi la cute è finalmente considerata un “organo sociale”.

Quando la pelle è ferita

Alcune rare malattie della pelle, provocando dolorose ferite o erosioni, incidono anche nella sessualità della vita di chi ne è affetto. Malattie bollose come il Pemfigo o patologie infiammatorie come il Lichen sono, solo per citarne due, cause di grande disagio. Le prime per le fastidiose bolle sulla pelle, nella bocca e nei genitali; o ancora per la trasformazioni delle unghie, la perdita di capelli e l’aumento del peso corporeo che possono comportare; la seconda per il prurito, il bruciore e persino il dolore che possono procurare durante un rapporto sessuale, per via di certe ferite che addirittura, talvolta, modificano l’anatomia genitale.

Gli studi clinici su questo tema sono pochi, ma ne abbiamo individuati due condotti con ottimi metodi. Uno offre agli operatori sanitari alcune linee guida per un adeguato supporto a chi soffre di epidermolisi bollosa; l’altro, uno studio di caso-controllo, indaga la relazione tra lichen scleroso e disfunzioni sessuali.

Il convegno

L’occasione per approfondire queste e altre questioni è fissata per il prossimo 17 aprile alle ore 18.00, quando si terrà il convegno online Malattie rare della pelle: l’impatto sulla sessualità organizzato dallAssociazione Nazionale Pemfigo Pemfigoide Italy e dall’Associazione Lichen Scleroatrofico. Ci sono certe cose di cui non si ha coraggio di parlare, ma che si ha necessità di ascoltare. Vi aspettiamo numerosi.

Carola Pulvirenti

Fisiologia del tocco delicato

Nel marzo 2020 è stato emanato il divieto di stringersi la mano, vietati anche baci e abbracci, perché un pericoloso virus si contagia attraverso il contatto. E’ passato una anno, ed il divieto di scambiarsi effusioni non è ancora stato revocato. Ma quanto potremo andare avanti senza il contatto fisico? Recenti ricerche scientifiche, in ambito dermatologico, hanno evidenziato l’importanza delle coccole per la salute. In particolare è stata studiata la fisiologia del tatto, ovvero i processi biochimici che ne determinano il potere benefico. I risultati sono stati descritti durante lo scorso Montagna Symposium, un gruppo di lavoro multidisciplinare che studia la biologia della cute. Il congresso è iniziato con la descrizione di un sottoinsieme di fibre tattili, che rispondono al tocco delicato, si tratta di una classe di neuroni che codifica le proprietà piacevoli del tocco, vengono chiamate Fibre C tattili afferenti. La loro scoperta ha portato a una visione della cute come “organo sociale”, a questo proposito il Dr. McGlone ha introdotto il concetto di un ” homunculus edonico ” per sottolineare che queste fibre processano le informazioni riguardanti il sentimento, piuttosto che la sensazione.

Lo sfioramento riduce ansia e stress

Fino a poco tempo fa, si riteneva che i neuroni sensoriali fossero gli unici a rispondere agli stimoli meccanici sulla pelle. Recenti pubblicazioni hanno invece rilevato che il tatto coinvolge, inizialmente, delle cellule non neuronali della pelle, cellule che a loro volta comunicano con i neuroni sensoriali. L’impulso tattile viene quindi trasmesso dalla periferia al midollo spinale e, alla fine, alla corteccia somato-sensoriale, attraverso una serie di circuiti neuronali. Come confermato da altri studitoccare la pelle può essere un potente stimolo emozionale, in grado di aumentare la qualità della vita nell’uomo e in altri mammiferi. Inoltre il tatto svolge un ruolo cruciale nello sviluppo fisico e cognitivo del bambino, ed è dimostrato che riduce l’ansia e lo stress, anche nell’adulto. Per comprendere l’esperienza piacevole del tocco, Guest ed altri hanno utilizzato un metodo scientifico qualitativo, sviluppando anche un linguaggio per descrivere l’esperienza del tatto. I risultati hanno mostrato che la risposta emotiva al tatto era composta da “piacere, eccitazione e dominio “.

Gli ormoni del piacere e del buonumore

Fra le diverse tipologie di tocco piacevole, i ricercatori hanno studiato anche il tocco interpersonale ed i suoi effetti benefici sulla salute e sul benessere, già descritti da Ippocrate migliaia di anni fa. La Dott.ssa Susannah Walker (Liverpool J. M. University, UK) ha indagato su questo tema per ottenere dati obiettivi, rilevando la frequenza cardiaca e registrando i movimenti dei muscoli facciali durante le carezze. In una delle sue pubblicazioni la dottoressa ha descritto inoltre le potenzialità della carezza, fra cui il rilascio di dopamina e ossitocina, due ormoni collegati rispettivamente al buonumore e alla sensazione di piacere.

Il ruolo della pelle

Uno studio successivo ha confermato l’importante ruolo della pelle nel rilevare e trasmettere stimoli meccanici, dimostrando che i neuroni sensoriali non agiscono da soli, ma collaborano con alcune cellule presenti sull’epidermide, chiamate Cheratinociti e Complessi Cellulari di Merkel.

L’applicazione clinica di trattamenti mirati al tocco piacevole, come ad esempio la terapia del massaggio, potrebbe, in futuro, fornire mezzi non farmacologici di trattamento di patologie cutanee croniche e immaginare nuovi potenziali obiettivi nella terapia del dolore. La scoperta di queste informazioni potrebbe inoltre trovare applicazione in alcune patologie del  sistema nervoso centrale, come i disturbi dello spettro autistico.

Carola Pulvirenti

L’odissea delle diagnosi

Ottenere una diagnosi corretta e tempestiva di una malattia rara può rivelarsi, per ragioni immaginabili, più difficile che in altri casi. Se è vero che i dati sulle diagnosi sbagliate non parlano solo di malati rari, sono soprattutto questi ultimi i protagonisti della tragica odissea delle diagnosi. Tra l’altro, è bene considerare che tra i malati rari c’è un’altissima percentuale di persone che soffrono di malattie non diagnosticabili e che ricevono diagnosi errate proprio perché loro patologia viene facilmente confusa con altre.

La popolosa comunità dei pazienti rari include un altissimo numero di persone costrette ad attendere anni prima di  ricevere il giusto trattamento. Alcuni malati rari convivono per mesi, anni o in molti casi persino l’intera vita con una patologia senza sapere di cosa si tratti. Ottenere una diagnosi corretta, insomma, per loro può tradursi in un’impresa lunga e difficile. Per questo oggi abbiamo deciso di soffermare la nostra attenzione sulla loro esperienza.

Le implicazioni

Una o più diagnosi errate non si traducono solo in lunghe attese e inutili indagini. Spesso i malati ricevono trattamenti inappropriati e costosi da cui derivano frustrazione e sforzi economici. Tutto questo dicasi per non entrare nel merito delle implicazioni emotive e psicologiche, risultato dell’ansia e dello stress a cui questa odissea espone costantemente.

Alcuni dati

Da un’indagine di Eurordis condotta su otto malattie rare relativamente comuni in Europa, è venuto fuori il dato allarmante che il 25% dei pazienti rari ha dovuto attendere da cinque a trent’anni per ottenere una diagnosi corretta. Non solo, durante lo stesso periodo di tempo, il 40% degli stessi pazienti aveva ricevuto una diagnosi errata.

Anche il team di Rare Barometer, dopo aver analizzato circa 3.900 risposte in 23 lingue e in 65 paesi in tutto il mondo, ha raccolto dati rilevanti sulla questione. I risultati suggeriscono che i pazienti affetti da una malattia rara vivono un’esperienza sanitaria di gran lunga peggiore rispetto ad altri pazienti, anche rispetto a quelli affetti da malattie croniche: su una scala da uno a cinque, chi ha partecipato all’indagine ha attributo una media di 2.5 alla sua esperienza sanitaria. Una valutazione insufficiente, insomma, che dovrebbe illuminare su quanto ancora c’è da fare per migliorare le cose.

Come migliorare la situazione?

L’obiettivo non è solo trovare un trattamento risolutivo o che migliori notevolmente la vita del paziente, ma trovarne uno che sia anche tempestivo. La tempestività diagnostica è, in sostanza, un elemento imprescindibile in questo processo. Non soltanto per la qualità della vita del paziente raro, ma in qualche caso anche per la sua sopravvivenza. Una buona politica sanitaria dovrebbe non solo offrire gli strumenti adeguati per offrire una diagnosi corretta, ma anche organizzare in team multidisciplinari il lavoro degli specialisti, ai fini di avvicinarli davvero a questi pazienti diversi e alle loro esigenze.

Tutto questo potrebbe fare una grandissima differenza.