Che sia necessario ottimizzare l’assistenza domiciliare è un dato certo. Molte attività, infatti, ancora ricadono sul caregiver.” É quanto afferma Rosaria Casa, infermiera di continuità assistenziale del Centro di Coordinamento per i Trattamenti a Domicilio INMI Spallanzani. L’abbiamo intervistata per analizzare più nel dettaglio punti di forza e criticità del servizio di assistenza domiciliare.

Criticità dell’assistenza domiciliare

Pensiamo a due coniugi anziani, – prosegue la Casa -, uno non autosufficiente e con assistenza domiciliare e l’altro autonomo, ma con le difficoltà che possono derivare dall’età. In questo caso, sarà l’anziano autonomo a dover periodicamente fare avanti e indietro tra medico di famiglia e CAD.” Quando l’assistenza domiciliare risponde ad un bisogno temporaneo, nel Lazio il solo modo per rinnovarla, è recarsi dal medico di famiglia a ritirare le richieste da portare al CAD. Questo impegno periodico, che ricade sul caregiver, può diventare complesso da gestire. Nel migliore dei casi, un giorno di ferie o di permesso sono tutto quanto occorre, anche spesso il problema persiste anche per un anno. Ma se il caregiver è un coniuge anziano o una colf arrivata da poco in Italia, allora le cose cambiano. Provvedere alla casa, alla spesa, al paziente e sbrigare faccende burocratiche può diventare un compito gravoso.

Se si ferma il caregiver

Il sistema CAD è basato sulla previsione effettuata da un team multidisciplinare che un certo numero di prestazioni verranno erogate. Superata la soglia numerica delle prestazioni previste, il servizio si interrompe e solo il medico di famiglia può riattivarlo, ma su richiesta del caregiver. Cosa succede allora se l’utente dimentica di tornare dal medico di famiglia? “Può succedere che il servizio si interrompa,” risponde Rosaria Casa. “Per esempio, in una delle telefonate che periodicamente effettuo ai  pazienti cronici, ho scoperto che da un anno un signore medicava le ferite della moglie. Scaduta la richiesta del CAD e non rinnovata, egli si era ritrovato ad occuparsi da solo della moglie, senza neppure conoscere il motivo per cui gli infermieri non andavano più a visitarla.”


Il coordinamento dei servizi

Questa vicenda la dice lunga sulla necessità che il coordinamento dei servizi, personalizzato per il singolo paziente, sia sempre efficiente. Chi coordina, in altre parole, deve avere piena contezza dei pazienti che assiste. Non solo: è necessario che vengano definiti bene i ruoli del personale afferente al CAD, perché ad oggi troppo impegno ricade sul medico di famiglia. “Coadiuvare il medico di famiglia, potrebbe essere un buon modo per migliorare la situazione”, afferma l’infermiera. “Oggi l’alta professionalità degli infermieri gli permetterebbe di gestire alcuni pazienti in autonomia.” Insomma, forse  il percorso di presa in carico andrebbe rivisto in tal senso.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza

É quanto prevede il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, con cui si intendono attivare ben 602 centrali operative territoriali (COT), una in ogni distretto, proprio con funzione di coordinamento dei servizi domiciliari. Tali centrali inoltre, assicurreranno l’interfaccia con gli ospedali e la rete di emergenza urgenza. “Per gli anziani si deve fare di più”, conclude la Casa. “Si dovrebbe considerare l’assistenza domiciliare non più soltanto una prestazione, ma una presa in carico integrata. È giusto che una persona anziana invecchi serenamente, senza faticare per accedere ai servizi sanitari.”

Carola Pulvirenti

Rosaria Casa, infermiera di continuità assistenziale del Centro di Coordinamento per i Trattamenti a Domicilio INMI Spallanzani di Roma

Quindici milioni di euro per medicina territoriale e digitalizzazione

Parliamo oggi della missione 6 del Piano Nazionale di Ripresa e resilienza (PNRR), la missione dedicata alla salute. Sul testo del Governo si legge che il Sistema Sanitario Nazionale dovrà affrontare due sfide, obiettivi per cui vengono investiti circa 15 milioni di euro:

  • Reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale (7 milioni)

  • Innovazione, ricerca e digitalizzazione del Sistema Sanitario Nazionale (8,63 milioni).

Curarsi a casa sarà possibile grazie all’innovazione tecnologica.L’esperienza della pandemia ha evidenziato l’importanza di poter contare su un adeguato sfruttamento delle tecnologie più avanzate,’ – si legge sul PNRR. Il documento evidenzia anche l’importanza di migliorare le competenze digitali, professionali e manageriali dei dipendenti e di avviare nuovi processi per l’erogazione delle prestazioni e delle cure. Infine si intende investire per un più efficace collegamento fra la ricerca, l’analisi dei dati, le cure e la loro programmazione a livello di sistema. Parole chiave: infrastrutture sul territorio, tecnologia e formazione del personale. Oggi presentiamo la parte del PNRR dedicata alle reti di prossimità.

Il percorso di cura: cosa dobbiamo migliorare

Sono molti i cittadini che si lamentano del Sistema Sanitario Nazionale, pochissimi quelli che sanno descrivere in maniera adeguata il disservizio che denunciano. Tuttavia il SSN provvede a rilevare le criticità attraverso diverse strategie. Di seguito descriviamo quattro aspetti suscettibili di miglioramento, criticità ben note alle persone con malattie croniche e rare e ai loro rappresentanti. 

1. Vi sono significative disparità territoriali nell’erogazione dei servizi, in particolare in termini di prevenzione e assistenza sul territorio.

2. L’inadeguata integrazione tra servizi ospedalieri, servizi territoriali e servizi sociali. Ne è un esempio il paziente che dev’essere dimesso da un ospedale per acuti, ma non è sufficientemente autonomo per andare a casa. L’integrazione fra le strutture è, in questo caso, necessaria perché l’impegno non ricada tutto sulla famiglia del paziente in dimissione.

3. Tempi di attesa elevati per l’erogazione di alcune prestazioni. Questo ha abituato molti cittadini a rivolgersi al privato, SENZA neanche provare più a telefonare al CUP regionale.

4 Scarsa capacità di conseguire sinergie nella definizione delle strategie di risposta ai rischi ambientali, climatici e sanitari.

Le case della comunità

La casa della comunità diventerà il centro di coordinamento dei servizi territoriali. Sarà il Punto Unico di Accesso alle prestazioni sanitarie allo scopo di garantire la promozione della salute e la presa in carico della comunità di riferimento. Nella casa della comunità opererà un team multidisciplinare di medici di medicina generale, pediatri, medici specialisti, infermieri di comunità e altri professionisti della salute. La casa della comunità rappresenta un importante passo avanti verso la sanità del futuro, difatti sarà dotata di una infrastruttura informatica, un punto prelievi, e di strumentazione polispecialistica.

L’assistenza domiciliare

Curarsi a casa è il desiderio di tutti, soprattutto gli anziani sono fortemente legati alla propria abitazione e al territorio. L’investimento del PNRR mira ad aumentare il volume delle prestazioni di assistenza domiciliare, fino a prendere in carico, entro la metà del 2026, il 10 % della popolazione di età superiore ai 65 anni (in linea con le migliori prassi europee). L’intervento si rivolge in particolare agli ultrasessantacinquenni con una o più patologie croniche e non autosufficienti. L’investimento mira inoltre a realizzare, presso ogni azienda sanitaria locale, un sistema informativo in grado di rilevare dati clinici in tempo reale. Questo potrà avvenire grazie all’attivazione di 602 centrali operative territoriali (c.o.t.), una in ogni distretto, con la funzione di coordinare i servizi domiciliari con gli altri servizi sanitari, assicurando l’interfaccia con gli ospedali e la rete di emergenza urgenza.

Gli ospedali di comunità

Gli ospedali di comunità sono una struttura sanitaria della rete territoriale destinata a pazienti che necessitano di interventi sanitari e media bassa intensità clinica e per degenze di breve durata. Si tratta di strutture a gestione prevalentemente infermieristica, che garantiscono una maggiore appropriatezza delle cure, determinando una riduzione di accessi impropri ai servizi sanitari. L’ospedale di comunità potrà anche facilitare il trasferimento dei pazienti dalle strutture ospedaliere per acuti al proprio domicilio, consentendo alle famiglie di avere il tempo necessario per organizzare l’assistenza domiciliare. Dunque curarsi a casa, o a pochi metri, sembra essere fra le priorità del governo. L’investimento economico c’è, ora sono necessari i progetti e un gran lavoro organizzativo a partire dalla formazione del personale e l’individuazione di figure di coordinamento. L’utilizzo efficace delle risorse è una sfida tutt’altro che semplice.

Carola Pulvirenti

Caratteristiche di un brutto neo

Alcuni nei sono brutti, ma assolutamente innocui. Altri invece risultano gradevoli alla vista, ma sono pericolosi. Per un autocontrollo periodico è importante conoscere le cinque caratteristiche di un neo sospetto, le descriviamo di seguito. Asimmetria: immaginiamo di dividere il neo a metà, se le due parti non sono identiche, sarà bene fare un controllo a breve. Bordo: il bordo ideale è liscio, se è frastagliato o irregolare è sospetto. Colore: attenzione ai nei con due o più colori. Dimensione: misuriamo il nostro neo con il righello, se è grande più di sei millimetri va valutato. Evoluzione: attenzione ai nei che crescono e si trasformano.

Un tumore della pelle

Il melanoma è un tumore maligno che si origina da alcune cellule della pelle e delle mucose. La malattia si sviluppa in tempi successivi, attraverso vari stadi di progressione, alcuni dei quali possono essere visti ad occhio nudo, come le cinque caratteristiche sopra descritte. Si tratta di una malattia potenzialmente mortale che, se non curata, sviluppa metastasi in vari distretti corporei. Rarissimo prima della pubertà, il melanoma colpisce prevalentemente persone di età compresa fra i 30 e i 60 anni. Nel 2020 è stato rilevato un aumento delle nuove diagnosi di melanoma, rispetto al 2019. Secondo l’Associazione Italiana di Oncologia Medica per il melanoma, come per molti tumori, vi sono dei fattori di rischio non modificabili ed altri modificabili. I fattori modificabili sono legati al nostro comportamento, pertanto ciascuno può mettere in atto una prevenzione modificando leggermente il proprio stile di vita.

Prevenire è possibile

Importante respirare aria pulita: ottime le attività nel verde ed eliminare il tabagismo. Un altro elemento importante è stare sempre in movimento, che sia sport o passeggiata quotidiana, va bene tutto pur di limitare la sedentarietà ed il sovrappeso, fattori di rischio per molte malattie. Infine aumentare il consumo di frutta e verdura è molto importante, riducendo gli alcolici ed i grassi animali. Per il melanoma c’è infine un fattore di rischio specifico: l’esposizione al sole senza accortezze. La luce solare è necessaria per la salute di tutti gli esservi viventi, al contempo può risultare molto pericolosa e provocare danni, non solo alla pelle. Il ministero della salute ci offre un opuscolo con tutte le informazioni sul tema. Assolutamente da evitare in estate l’esposizione al sole tra le ore 11.00 e le 16.00 pertanto, chi non ha voglia di stare all’ombra, dovrà munirsi di cappello, e crema protettiva da spalmare spesso.

Carola Pulvirenti

I rischi del cibo

Esistono numerosi rischi associati al cibo e, purtroppo, molti di essi non siamo sempre in grado di prevederli. Con la stagione calda, per esempio, anche gli alimenti più sani possono facilmente deteriorarsi: bastano temperature medie per avviare certi processi di alterazione dannosi – e in qualche caso letali – per l’uomo. E allora come comportarsi per porre rimedio? Bastano quattro accortezze per mangiare in sicurezza, vediamo quali.

Pulire

Il Centre For Disease Control e l‘Istituto Superiore di Sanità offrono chiare e perentorie indicazioni in merito: pulire, separare, cuocere, conservare bene i cibi. Queste le quattro parole d’ordine. Pulire le superfici e lavare bene le mani è il primo passo per evitare che i batteri che causano intossicazioni alimentari proliferino: essi sopravvivono molto facilmente in ambienti non igienizzati, pertanto è necessario che si prendano questi piccoli accorgimenti. Non solo mani e superfici: è fondamentale lavare molto bene anche frutta e verdura e assolutamente sotto l’acqua corrente.

Separare

Un altro comportamento virtuoso sarebbe separare alcuni cibi da altri. Carni crude, frutti di mare e pollame – potenzialmente molto pericolosi per l’uomo – andrebbero, infatti, tenuti lontani da altri cibi, proprio perché i batteri di cui sopra si moltiplicano con estrema facilità. Per le stesse ragioni, si richiede grande cautela anche con taglieri e piatti, che andrebbero cambiati in base ai cibi che usiamo.

Cuocere

Per eliminare questi batteri, inutile dirlo, non basta cuocere i cibi. Fondamentale è che la cottura arrivi a determinate temperature. Sarebbe indispensabile dotarsi, per esempio, di un termometro da cibo. Non basta controllare la cottura dal colore del cibo o dalla sua consistenza. Per esempio, stando alle indicazioni del Centre For Disease Control, circa 60 gradi sarebbe la temperatura giusta per tagli interi di manzo, maiale, vitello, agnello, prosciutto e pesci con le pinne; circa 70 per carne macinata; circa 75, infine, per il pollame, gli sformati, gli stufati o per scaldare gli avanzi.

Conservare

Ultimo passo: il frigo. L’ideale sarebbe tenere il frigo ad una temperatura di 4 gradi o inferiore e non farla mai salire. Non solo: il cibo in frigo non può restarci in eterno! Esistono delle tabelle che indicano, per ogni cibo, i tempi massimi di conservazione e sarebbe bene consultarle attentamente. Un discorso non tanto diverso va applicato anche alla conservazione in freezer: solo per fare un esempio, per zuppe e stufati si consiglia un periodo non superiore a 3 mesi; alcuni cibi come creme o mousse, invece, si consiglia addirittura di non congelarli affatto. Come il congelamento, anche lo scongelamento è un momento delicato: il cibo andrebbe, infatti, scongelato in frigo, in acqua o al più nel forno a microonde, ma mai sul banco cucina. Lì i batteri si moltiplicherebbero molto rapidamente non appena raggiunta la temperatura ambiente. Per le stesse ragioni si consiglia di non lasciare il cibo fuori dal frigo per più di 2 ore (o per più di 1 se la temperatura è più calda di 30 gradi).

Mangiare in sicurezza. Chi è più a rischio?

Posto che questi rischi sono significativi per tutti noi, alcune persone più facilmente possono imbattersi in intossicazioni pericolose: devono prestare particolare attenzione donne in gravidanza, bambini di età inferiore a 5 anni, adulti di età superiore ai 65 e ancora tutti coloro che hanno un sistema immunitario particolarmente debole. Per queste persone mangiare in sicurezza è ancora più importante.
Il cibo è vita, si sa. Ma questa equazione non è sempre vera. ll cibo deteriorato o eccessivamente elaborato può fare davvero male. Esercitiamo il diritto ad essere informati su quello che consumiamo: il cibo sano può fare la differenza.

La storia di Camilla

Ha sconvolto tutti la storia della diciottenne Camilla, morta a causa di una trombosi dopo la somministrazione del vaccino anti Covid-19. Sono numerosi i dubbi che hanno assalito i genitori che non hanno ancora fatto vaccinare i propri figli. In un precedente articoloabbiamo descritto il motivo per cui, in seguito al vaccino, alcune persone svilupperebbero queste trombosi e altre no. La causa – dicevamo – starebbe nella presenza di anticorpi anti PF4-eparina nel loro sistema immunitario. Questi autoanticorpi, quando stimolati, attiverebbero grandi quantità di piastrine successivamente eliminate. Sarebbe questo danno al sistema della coagulazione a provocare trombi ed emorragie. É esattamente questo quello che sembra essere accaduto alla povera Camilla. 

Cosa è accaduto?

Vaccinata con una dose di AstraZeneca nell’open day per i giovani, Camilla è stata poi ricoverata ed operata per una trombosi cerebrale. La comunità scientifica già da tempo investiga gli effetti di Astrazeneca sulle giovani donne. Lo scorso aprile, la prestigiosa rivista New England Journal of Medicine ha pubblicato un interessante articolo contenente i dati relativi agli eventi trombotici insorti dopo vaccinazione con Astrazeneca. Stando a queste indagini, i suddetti problemi della coagulazione colpirebbero prevalentemente le giovani donne. Dei campioni ematici degli 11 pazienti con trombosi studiati, infatti, la maggior parte apparteneva a donne con età media di 36 anni. Detto ciò, è ovvio che va tenuto presente che i numeri di queste indagini sono estremamente bassi, soprattutto se paragonati ai milioni di giovani donne che hanno ricevuto il vaccino e che non hanno sviluppato trombosi.

Camilla poteva essere salvata?

Camilla poteva essere salvata? Esistono degli esami che avrebbero potuto prevedere il rischio di trombosi? Una terapia adeguata, o un’intervento precoce, avrebbero potuto cambiare la situazione?

Vediamo cos’è accaduto, con ordine. La giovane, una settimana dopo il vaccino, si era recata in pronto soccorso con il mal di testa. I medici l’avevano sottoposta ad accertamenti, fra cui una tac cerebrale, ma non avevano rilevato problemi. Due giorni dopo, però, la ragazza era tornata in ospedale per dei disturbi motori. Una nuova tac, a quel punto, aveva rilevato la presenza di emorragia cerebrale, così si era deciso di operare immediatamente.

Gli accertamenti finalizzati a comprendere la situazione di Camilla sono ancora in corso. A tal proposito, sarà importante capire se l’emocromo della giovane mostrava già segni di trombocitopenia e se il suo sistema immunitario era predisposto per la trombocitopenia immune, l’alterazione che ha colpito altre ragazze vaccinate con Astrazeneca e Johnson&Johnson.

Carola Pulvirenti

Il mal di testa

Hai mai avuto un mal di testa atroce? Un dolore che ti ha impedito di svolgere qualsiasi attività e che non è passato con nessun farmaco? Ci sono persone che convivono con questo faticoso dolore alla testa, la cefalea, che è spesso associato ad altri disturbi. Vi sono, infatti, in molti casi, non solo alcuni sintomi che lo accompagnano – vomito, fotofobia, sonnolenza -, ma addirittura alcuni che la precedono: per esempio irritabilità, astenia o offuscamento della vista. Tutto questo, inutile dirlo, può rendere difficile se non impossibile il proseguimento delle proprie attività a lavoro come in famiglia.

I numeri

Ad oggi la comunità scientifica riconosce più di 200 tipi di cefalea. Dal 90% dalle indagini strumentali, però, non emerge una causa organica, per cui la cefalea viene definita primaria. Le cefalee secondarie rappresentano, invece, il sintomo di altre patologie e costituiscono il restante 10%. In questo articolo approfondiremo la cefalea primaria.

La diagnosi

I medici effettuano la diagnosi di questo disturbo sulla base della Classificazione Internazionale delle Cefalee, un documento redatto nel 2018 che annovera, tra le più diffuse tipologie di cefalea primaria: l’emicrania, che si presenta con un dolore pulsante unilaterale o alternante, può durare dalle 4 alle 72 h e può accompagnarsi a fotofobia, fonofobia, vomito, nausea; la cefalea di tipo tensivo, che si presenta con un dolore gravativo, come un cerchio alla testa, può durare dai 30 minuti ai 7 giorni e di solito si accompagna ad altri sintomi di rilievo; la cefalea a grappolo – chiamata anche cefalea da suicidio – che si presenta con un dolore lancinante sopra un occhio, dura di solito da 15 ai 180 minuti ed è accompagnata da lacrimazione di occhio e naso. Il documento menziona, oltre a queste, anche altre cefalee primarie, però meno diffuse: quella da stimolo freddo, da tosse o da attività sessuale.


Il diario della cefalea

La presa in carico del paziente avviene dopo attenta anamnesi in cui si verificano familiarità del disturbo, età d’esordio, abitudini alimentari e comportamento. Per prevenire nuovi attacchi risulta fondamentale anche rilevare informazioni quali il giorno di esordio della cefalea, la sede del dolore, i farmaci eventualmente assunti e altri dettagli. A chi soffre di episodi ricorrenti, si consiglia di tenere un diario della cefalea o di utilizzare alcune app che consentono, sia al paziente che al medico, di raccogliere velocemente dati utili.

Cura e ricerca

Compresa la natura del disturbo e il tipo di mal di testa, si passa al trattamento, che può può essere, a seconda dei casi, sintomatico, preventivo o l’uno e l’altro. Il trattamento sintomatico è indicato quando si hanno attacchi non disabilitanti e che si presentano con una bassa frequenza (meno di 4 giorni al mese). I farmaci maggiormente utilizzati in questo caso sono i triptani, gli analgesici semplici, gli antiemetici o i nuovi ditani. Il trattamento preventivo, invece, è indicato quando l’emicrania è disabilitante e si presenta con una frequenza maggiore di 4 giorni al mese, dunque quando vi è scarsa risposta ai farmaci sintomatici. In questo caso, vengono utilizzati betabloccanti, antiepilettici, antidepressivi, tossina botulinica o, ancora, dal 2018, gli anticorpi monoclonali.


Le associazioni per i pazienti 

Quando il paziente si rivolge al centro cefalee è spesso già in abuso di antidolorifici perché ha sottovalutato il problema. Con la presa in carico inizia il percorso per la conoscenza e l’accettazione della propria malattia. In questo percorso è importante anche la vicinanza e il confronto con altre persone affette dallo stesso problema. Il Centro Italiano Ricerche Neurologiche Avanzate Onlus (C.I.R.N.A.) e l’Alleanza Cefalalgici (Al.Ce.), dal 1990, operano per poter migliorare la vita di circa 7 milioni di cefalalgici attraverso un sito nel quale è possible  centri specializzati ed accreditati, prender parte a dei forum in totale anonimato, o persino contattare medici disponibili per dei consulti. Sono, inoltre, disponibili una pagina e un gruppo Facebook, o ancora gruppi AMA on line.

La cefalea come malattia sociale

A tal proposito va assolutamente ricordato che Al.Ce. ha partecipato attivamente all’approvazione della legge dell’8 luglio 2020, che riconosce la Cefalea come malattia sociale. Si tratta di un passo fondamentale, che sposta l’attenzione su un aspetto della malattia spesso lasciato da parte: il riconoscimento sociale. Una comunità che accoglie con favore le persone malate e disabili contribuisce notevolmente a migliorare la qualità della vita delle stesse. Questo passaggio di natura politica andrebbe tenuto presente sempre, soprattutto quando si è di fronte a quelle patologie più oscure, più rare, o più sottovalutate. Grazie Al.Ce. per il prezioso contributo.

Articolo scritto con la collaborazione di Cristina Randoli del Gruppo AMA Ferrara

Malattie autoimmuni, quali cause

Che l’eziologia delle malattie autoimmuni sia multifattoriale è ormai un dato comprovato dalla comunità scientifica. Fattori genetici, ambientali, ormonali, immunologici incidono in modo significativo nella genesi di queste patologie. Alcuni di essi persino più comunemente di altri. Tuttavia sono numerosi i pazienti i quali ritengono che, a provocare la propria malattia autoimmune, sia stato un preciso evento traumatico. Lo stress fisico e psicologico, infatti, è un fattore fortemente implicato nello sviluppo delle malattie autoimmuni. Molti studi retrospettivi hanno attestato che un’alta percentuale di pazienti (fino all’80%) riferiva di stress emotivo non comune prima dell’insorgenza della malattia.

Ormoni e sistema immunitario

Ma perché lo stress è così strettamente legato a queste patologie? Si presume che la disregolazione immunitaria sia provocata dagli ormoni neuroendocrini innescati dallo stress. L’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) è il coordinatore centrale dei sistemi di risposta allo stress. Dopo l’esposizione ad un evento stressante, i neuroni dell’ipotalamo secernono ormoni che stimolano l’ipofisi, ghiandola che rilascia sostanze stimolanti le ghiandole surrenali. Le surrenali rilasciano sostanze glucocorticoidi che modificano il metabolismo, così come la funzione immunitaria e il cervello, coordinando in tal modo la risposta allo stress. In che modo quindi ciò si ripercuote sul sistema immunitario? Tali ormoni rilasciati dal HPA risultano amplificare la produzione di citochine, mediatori che della comunicazione fra le cellule del sistema immunitario e fra queste e diversi organi e tessuti. I trasmettitori che si attivano in questi casi provocherebbero, quindi, infiammazione e danno tissutale.

La risposta ad un evento traumatico

Della parola “stress” s’è abusato fin troppo. Il termine è stato semplificato, travisato, svilito. Intorno a questo concetto, invece, ci sono stati studi interessantissimi. Fu Hans Selye, un medico austriaco, il primo a descrivere, nel Novecento, il sistema ipotalamo-ipofisi-surrene, quello con cui il corpo affronta lo stress.

Vale la pena precisare che lo stress è niente altro che la risposta dell’organismo ad uno stimolo ambientale, ad esempio un evento traumatico; è, invece, la difficoltà di adattarsi ad eventi negativi ciò che diventa problematico. Ad avere  maggiori probabilità di ammalarsi, mentalmente o fisicamente, è proprio, infatti, chi vive il cosiddetto “distress”. Ed è questa difficoltà ad incidere sul sistema immunitario, ad abbassare le difese dell’organismo e diminuire la capacità di guarigione dei tessuti corporei.

Terapia comportamentale

Se dunque un evento traumatico potrebbe provocare una malattia autoimmune, allora è necessario che il trattamento di queste malattie includa la gestione dello stress e l’intervento comportamentale con il supporto di uno psicoterapeuta. Nonostante l’accordo della comunità scientifica su questo tema, c’è molto poco lavoro di ricerca clinica e scarsa attenzione a questo aspetto. Nuove discipline – prima fra tutte la neuroendocrinoimmunologia – mirano oggi a comprendere meglio il ruolo dello stress nello sviluppo di queste malattie e, insieme, a sviluppare un trattamento migliore per le stesse. La gestione del peso, dunque una dieta appropriata, e la vita in un ambiente domestico sano, sono fattori importantissimi per prevenire le infiammazioni e rallentare la loro progressione. Se è vero che non possiamo modificare alcuno dei nostri fattori genetici ed ereditari, è altrettanto vero, però, che possiamo agire sul nostro stile di vita.

Tecniche di gestione dello stress

Lo stress è, dunque, un fattore di rischio. Per cambiare qualcosa, è fondamentale imparare a sviluppare tecniche efficaci per gestirlo. Diverse malattie autoimmuni, come Pemfigo e Fibromialgia, potrebbero essere tenute sotto controllo attraverso un programma di gestione dello stress. Lo psicoterapeuta è lo specialista in grado di insegnare alle persone tecniche adeguate per affrontare e prevenire lo stress.  La maggior parte dei dermatologi ritiene che i problemi psicologici siano frequenti tra i soggetti che vengono alla loro attenzione: numerosi studi su pazienti dermatologici hanno infatti rivelato che, già prima della diagnosi di malattia dermatologica, queste persone soffrivano di disturbi psicologici. In particolare, dalla letteratura disponibile, emerge una chiara correlazione fra stress emotivo e Pemfigo.

Il ruolo esatto dello stress nella patogenesi delle malattie autoimmuni, a tal proposito, dovrebbe essere chiarito da studi prospettici con un focus sia clinico che immunoserologico. Non solo: le reazioni allo stress dovrebbero essere discusse in modo approfondito con i pazienti attraverso questionari mirati sui fattori scatenanti e sintomi. Il paziente e la sua storia è ciò da cui parte tutto: il sintomo è l’espressione del suo mondo interiore e la medicina non può assolutamente lasciarlo fuori.

Carola Pulvirenti

La mia prima volta

La prima volta che ho avuto a che fare con una malattia rara e che ho manifestato il mio interesse per quel mondo, sembrava non ci fosse speranza per un futuro migliore. Mi sono ritrovata bersagliata da reazioni sfiduciate: “Rassegnati!”, qualcuno diceva, “si tratta di una malattia rara, non ci sono cure”; o ancora: “Nessuna casa farmaceutica investirà risorse per curare pochi pazienti”. Da infermiera del Servizio Sanitario Pubblico, però, io ero sicura che per le persone affette da malattie rare, invece, si facesse tanto. Quattro anni dopo, entrata nel mondo dell’advocacy, ho potuto constatare che avevo ragione: in Italia ci sono degli ottimi centri di cura per le malattie rare; il parlamento italiano ha un gruppo di lavoro dedicato al tema e quello europeo promuove e finanzia studi per le persone affette da queste malattie.

Rare 2030: l’impegno dell’ Europa

“La comunità delle persone con malattie rare, ed i loro caregivers, meritano la nostra ammirazione,​ ma l’ammirazione non è sufficiente.” Lo afferma Robert Madelin, consulente per la ricerca nel progetto Rare 2030 . Rare 2030 è uno studio che guiderà le iniziative politiche, sulle malattie rare in Europa, per i prossimi dieci anni e oltre, per garantire un futuro migliore. Duecento esperti e migliaia di pazienti si sono riuniti per prendere importanti decisioni in merito e, attraverso un lavoro durato circa due anni, hanno individuato otto fondamentali priorità che offrono indicazioni per il supporto alle persone con malattie rare. “La salute di 30 milioni di persone, che vivono con una malattia rara in Europa, non dovrebbe essere lasciata alla fortuna o al caso.”  afferma il Dottor Madelin, per questo il progetto Rare 2030 impegna pazienti e professionisti alla ricerca di soluzioni efficaci e condivise.

Otto priorità per le malattie rare

Fra le priorità, individuate grazie al lavoro di cittadini, sanitari e amministratori, vi è lo stanziamento di fondi per garantire la giustizia sociale, ovvero l’eguaglianza del diritto alle cure. Nonché la promozione di politiche che riguardano diagnosi più rapide e più accurate. Una cura focalizzata sulla persona, non soltanto sulla malattia. Dei trattamenti che prevedano un maggiore coinvolgimento del paziente, con la sua storia e la sua quotidianità. Inoltre si lavora per promuovere investimenti nella ricerca di trattamenti che siano economicamente più gestibili, difatti spesso le persone con malattie rare devono sostenere ingenti spese per recarsi nei centri di cura ed acquistare farmaci e presidi. Infine si è dato risalto alla necessita di ottimizzare la raccolta e l’elaborazione dei dati, elemento fondamentale per poter adottare scelte politiche appropriate.

Gli scenari per il futuro

Di quattro possibili scenari futuri (vedi tabella), proposti dallo studio Rare 2030, la comunità di malati rari ha identificato lo scenario numero uno come il preferito: “Investimenti per la Giustizia Sociale”. In esso vi sono tre fattori cruciali: l’innovazione, guidata dal paziente e dai suoi bisogni insoddisfatti e non da un ritorno economico; la responsabilità della collettività nei confronti di questa popolazione vulnerabile; e gli obiettivi calibrati sui risultati raggiunti, sia rispetto alle diagnosi, che rispetto ai trattamenti e all’accessibilità delle cure. I progetti per il futuro prossimo dei malati rari sembrano essere davvero promettenti. La speranza è che tali iniziative siano sostenute dalle politiche, accolti nelle comunità, e, prima di tutto, compresi in profondità da chi vive in prima persone queste malattie. Dovremo lavorare insieme per questo futuro. Intanto, grazie a Rare 2030 per questo enorme passo in avanti!

 Carola Pulvirenti

Rare 2030: lo scenario futuro

Paura del diverso, l’omofobia

Ricorre oggi, 17 maggio, la diciassettesima Giornata Internazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la transfobia e la bifobia. Quest’anno ci saranno tanti eventi e webinar finalizzati a sensibilizzare l’opinione pubblica e prevenire la discriminazione contro chi  si tiene per mano o bacia una persona dello stesso sesso. Sono ancora troppe le persone che temono chi è diverso da loro, spesso però questo disagio si tramuta in atteggiamenti discriminatori, che producono una profonda sofferenza in chi li subisce.

La sofferenza di chi è diverso

Omosessuali e transgender devono già affrontare un percorso personale di accettazione di se’, come qualunque persona che, per i più svariati motivi, si accorge di essere “fuori dal comune”; questo percorso è tutt’altro che semplice e talvolta necessita del supporto di uno psicoterapeuta. L’isolamento sociale ma soprattutto familiare non fa che peggiorare la serenità di minori e adolescenti LGBTI. Di questo tema abbiamo parlato con il Dottor Manlio Converti, psichiatra presso la Asl Napoli 2 nord, fondatore e presidente dell’Associazione Medici e Personale Sanitario LGBTI o Gayfriendly AMIGAY.  Fra le finalità dell’associazione vi è quella di ottenere la Completa Depatologizzazione dell’Omosessualità e Depsichiatrizzazione dell’Identità di Genere in Italia, nonchè il contrasto attivo all’Omofobia Sanitaria. 

Cos’è l’omofobia

Dottor Converti, come possiamo definire l’omofobia? “A chi si chiede cosa sia l’omofobia, andrebbe risposto che è niente altro che un reato e che, in quanto tale, va assolutamente scoraggiato”. Rimbalza a più riprese nelle cronache di questi giorni il Decreto Zan – oggi ancora disegno di legge – che prevede di estendere la norma sui reati d’odio e discriminazioni verso la comunità LGBTI, le donne e le persone con disabilità. Parlare solo di omofobia è, dunque, persino riduttivo quando si parla di questo disegno di legge: esso intende, infatti, allargare la tutela contro diverse forme discriminatorie, non l’omofobia soltanto. 

Diverse forme di discriminazione

Proviamo a capire come funziona l’atteggiamento discriminatorio di marca omofoba. Con l’aiuto del Dottor Converti, comprendiamo che esistono diverse forme di discriminazione omofoba: omofobia psicologica, relazionale, sociale, sanitaria, politica. Oggi il Dottor Converti ci parlerà  delle prime tre.

Omofobia Psicologica

Si tratta di un campo complesso, che possiamo provare a ridurre al dialogo interiore tra l’Io e l’Altro da sé. Se l’Io aggredisce l’Altro si parla di omofobia, che causa espulsione ed emarginazione. Quando l’aggressione continua, si produce nella vittima un Altro interiore che aggredisce il Sè. In questo caso il disagio interiore è maggiore (Minority Stress) e causa  l’aspettativa di rifiuto e l’evitamento sociale. A livello psicologico la paura – che causa evitamento e vergogna – potrebbe indurre il soggetto LGBTI persino all’autolesionismo o al suicidio.”

Omofobia Relazionale

“L’omofobia relazionale dipende dal comportamento sociale violento: il bullismo omo-trabsfobico. In questo caso sussistono dei ruoli ben definiti: da un lato il/la Leader, che decide la “Regola” del gruppo, dunque accoglie, rifiuta o indica il Capro Espiatorio; dall’altro il Capro Espiatorio, al contempo presente e rifiutato, e intorno al quale si innescano meccanismi complessi di stigmatizzazione a causa di una qualunque sua diversità. Vi sono infine i Gregari, che  sostengono il Leader omofobo, e gli Alleati che creano un’alleanza con la persona LGBTI affinché questa venga accolta.”

Omofobia Sociale

Una delle innumerevoli forme di omofobia sociale è l’Omofobia Giuridica, legata a tutte quelle leggi di marca discriminatoria che, in modi differenti, hanno segnato la Storia. Si pensi all’Editto di Giustiniano, per esempio, che eliminava il panteismo e condannava l’omosessualità maschile; oppure alle Leggi Vittoriane contro la comunità gay, estese in tutto il mondo attraverso il Commonwealth; o ancora all’articolo 175 del Codice Prussiano, derivato proprio dalle Leggi Vittoriane, che causò l’internamento degli omosessuali nei campi di concentramento nazista; o ancora alle recenti leggi russe e dei paesi ex-sovietici contro la “Propaganda LGBTI”.

Uguaglianza e diversità

Tradizioni, idee, e leggi discriminatorie esistono ancora in molti Paesi del mondo. Numerosi gruppi di persone vengono discriminati in seguito a un giudizio o una classificazione che non hanno alcuna base scientifica.  Anche in Sanità tuttavia,  attraverso Avicenna, Krafft-Ebing o Nicolosi, si perpetua l’idea falsa che amare, o sentirsi in un certo modo, sia una malattia mentale. Si sente spesso parlare di uguaglianza, ma l’uguaglianza deve riguardare esclusivamente i diritti e mai le persone! Ogni individuo deve infatti essere libero di sentirsi e mostrarsi diverso.

Carola Pulvirenti

Non solo numeri

La domanda di informazione statistica sui numerosi temi legati alla disabilità ha subito, negli ultimi anni, un radicale cambiamento. Oggi la ricerca sta diventando sempre più sofisticata, infatti si raccolgono dati sull’accessibilità degli ambienti, sull’informazione e le tecnologie a disposizione dei disabili, sull’accesso ai servizi sanitari e socio-assistenziali e via dicendo. Il dibattito che si è animato a livello internazionale ha, insomma, determinato un profondo rinnovamento prima negli strumenti di misurazione statistica della disabilità e di conseguenza, anche se non in modo risolutivo, nella percezione della stessa.

Il nuovo paradigma è stato formalizzato nella nuova classificazione internazionale della salute e della disabilità, l’International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF). In seguito anche una Convenzione Onu, ratificata anche dal nostro Paese, ha recepito tale rinnovamento, ed ha identificato i diritti soggettivi delle persone con disabilità e fornito indicazioni per interventi finalizzati al perfezionamento degli stessi.

Fotografia della situazione italiana

L’Istituto Nazionale di Statistica ha investito negli anni molte risorse sul tema della disabilità. Lo si apprende chiaramente dal resoconto dell’ultima  audizione del Presidente dell’Istituto, Gian Carlo Blangiardo. “La letteratura scientifica – scrive Blangiardo – ha mostrato che gli elementi di fragilità, che possono limitare lo sviluppo degli individui e il progresso sociale, sono molteplici e dipendono in larga misura dalla società e dal contesto in cui sono collocati.”

Nel nostro Paese, nel 2019, le persone con disabilità erano 3 milioni e 150 mila. Non solo: si stima che il 30,3% degli anziani abbia gravi difficoltà a svolgere le più semplici attività domestiche. Questo per non parlare delle attività che implicano una certa autonomia fisica, per esempio fare la spesa e spostarsi liberamente.

 

Le malattie invisibili

La gran parte della letteratura sul tema, però, si focalizza perlopiù sulle storie di coloro che presentano disabilità più manifeste, lasciando da parte tutto il resto della comunità. Viene da chiedersi, allora, quale spazio occupi, in questa vicenda, chi soffre delle cosiddette malattie invisibili. Soffrire di una malattia invisibile può significare dover continuamente spiegare al mondo i propri limiti non sempre visibili. Soffrire di una malattia invisibile significa dover combattere strenuamente per i propri diritti contro chi li nega altrettanto strenuamente e semplicemente perché non li vede.

 

Che fare?

Purtroppo i fatti parlano di un mondo che ancora non lascia al malato invisibile lo spazio adeguato e il giusto tempo. Anche la malattia invisibile ha forme visibilissime, se scoperte nei giorni in cui costringono, per esempio, a letto chi ne soffre. E poi, visibile/invisibile a chi? Questi concetti sono molto più problematici delle parole che li definiscono e, potremmo dire, dipendono non solo da cosa si vede, ma anche da come si guarda. C’è molta strada da percorrere ed è necessario chiedersi ora, subito, cosa fare per il presente e per il futuro. Sarebbe bellissimo se cominciasse tutto dalla scuola.

Carola Pulvirenti