Il Patient Engagement promuove la sicurezza dell’ assistenza. È questo il tema della Giornata Mondiale della Sicurezza del Paziente 2023, celebrata oggi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Perchè promuovere il coinvolgimento attivo dei pazienti? Ce lo spiega una professionista del settore: “Una delle difficoltà che sperimento coi dottori, è provare a far capire loro che conoscere ogni cosa riguardo una malattia, non significa conoscere cosa significa vivere con quella malattia.”  Paola Kruger.

La sanità partecipata

Ad oggi le aziende sanitarie si impegnano per recepire le opinioni dei pazienti, ma questo risulta scarsamente efficace perché il paziente esprime un parere senza conoscere l’organizzazione del servizio. Il Patient Engagement è una metodica che prevede il contributo dei pazienti in tutte le fasi del processo di cura: nella stesura dei protocolli di ricerca, nell’organizzazione dei servizi sanitari, e in molti altri ambiti come i tavoli di lavoro istituzionali.

Le esperienze internazionali ci portano a ritenere che i pazienti esperti e le Associazioni di Pazienti rappresentano una risorsa preziosa da integrare nel sistema sanitario. L’Agenzia Europea per i medicinali (EMA) garantisce il coinvolgimento dei pazienti nei propri organi di gestione e L’ Agenzia Italiana del farmaco (AIFA) ha, da alcuni anni, aperto un tavolo permanente per i pazienti secondo le linee guida del Documento in materia di Governance farmaceutica. In sostanza i pazienti entreranno in pianta stabile all’interno dell’Agenzia italiana del farmaco per migliorare la consultazione con le associazioni dei pazienti all’interno dell’iniziativa Open Aifa.

Patient Engagement

La prospettiva del Patient Engagement è quella di una salute pubblica inclusiva, che fonda le sue radici sul dialogo fra i diversi stakeholders. Per la buona riuscita di un progetto d’impresa è necessario il coinvolgimento di tutte le risorse, allo stesso modo per il successo del processo di cura è necessario il coinvolgimento di tutte le risorse ed il paziente è destinatario delle cure ma anche risorsa da coinvolgere e valorizzare.

I pazienti esperti certificati

I “Pazienti Esperti” sono l’ideale. Oltre all’esperienza specifica della malattia, hanno le conoscenze tecniche in ricerca e sviluppo del farmaco. Andrebbero coinvolti ad esempio nei progetti di ricerca fin dalle prime fasi e nei comitati etici, come nei processi di valutazione delle tecnologie sanitarie (HTA). L’accademia Europea dei Pazienti sull’Innovazione Terapeutica (EUPATI) ed il Centro PATIENT ADVOCACY LAB dell’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, si stanno occupando di formare i pazienti per renderli ‘Esperti’. Il paziente Esperto è una persona preparata e consapevole che supporta il professionista sanitario ed il ricercatore con la sua esperienza diretta di malattia, come paziente o caregiver.

I rappresentanti delle organizzazioni

I rappresentanti delle organizzazioni di pazienti, o Patient Advocate, sono persone incaricate di esprimere le opinioni collettive di un gruppo di pazienti su una specifica malattia o gruppo di malattie ed hanno l’esperienza nel supportare una comunità di pazienti. E’ importante coinvolgerli nell’organizzazione dell’assistenza, ad esempio attraverso le consulte dei pazienti e nella stesura dei Piani Diagnostico Terapeutici Assistenziali (PDTA).

Mettere in atto l’engagement

Un paziente esperto ha una sua area di expertise e lavora in due modalità principali: offrire supporto ai pazienti per l’aderenza alle cure e garantire loro informazioni affidabili per poter affrontare la vita quotidiana con la propria malattia. IL Paziente Esperto può inoltre supportare l’attività di ricerca clinica, ad esempio nel reclutamento dei pazienti, nella stesura e spiegazione del consenso informato. I pazienti esperti possono anche offrire un prezioso contributo nella determinazione dei criteri di raccolta dati e nell’identificazione delle priorità all’interno di una certa linea di ricerca.

Misurare l’efficacia dei progetti

Molte aziende sanitarie italiane mettono in atto iniziative e progetti di engagement, tuttavia sono poche quelle che adottano metodi certificati per misurarne l’efficacia. E’ necessario quindi fare un decisivo passo avanti verso innovazione e partecipazione in sanità. Per promuovere il Patient Engagement, potremmo cominciare da tre iniziative:

  1. Misurare quanto un progetto di assistenza o ricerca sia centrato sul paziente.
  2. Rilevare, con metodo, gli esiti riferiti dai pazienti (Patient Reported Outcomes)
  3. Progettare tutte le iniziative di cura in collaborazione con i pazienti.

Esiste un divario fra la ricerca clinica, l’assistenza sanitaria ed i bisogni insoddisfatti dei pazienti. Ed io credo fortemente che il Patient Engagement possa colmare questo vuoto.

Carola Pulvirenti

I virus vengono utilizzati per trasportare i geni a destinazione

Con l’avvento della pandemia, abbiamo conosciuto le terribili conseguenze sull’uomo di molecole microscopiche e invisibili, come i virus. Tuttavia gli scienziati studiano da decenni queste molecole e sono riusciti ad utilizzarne alcune a scopo terapeutico. Nel caso della terapia genica, i virus vengono sfruttati per trasportare i geni a destinazione. La terapia genica è una terapia innovativa che offre buone prospettive di cura per le malattie genetiche e rare. Tuttavia, essendo una terapia altamente specifica, non è sempre facile farla arrivare all’organo per cui è stata creata, gli ostacoli sono le barriere che l’organismo usa per proteggersi. I ricercatori hanno quindi imparato a sfruttare la capacità di alcuni virus nel superare queste barriere. Si tratta naturalmente di virus non patogeni, che non interferiscono con il genoma dell’ospite umano.

Il ruolo dei virus nella terapia genica

Qual è dunque il ruolo dei virus, e delle proteine da essi derivate, nell’ambito della terapia genica? La terapia genica prevede la creazione in laboratorio di materiale genetico, questo materiale contiene le “istruzioni” per la riparazione dei difetti genetici. Il materiale genetico, creato in laboratorio, deve essere immesso nell’organismo ed arrivare esattamente nel punto migliore in cui può agire. Tuttavia, nel suo percorso all’interno dell’uomo, incontra numerosi ostacoli, pertanto lo scienziato deve predisporre le condizioni migliori per superare tali ostacoli. Attualmente, per le malattie che coinvolgono il sistema nervoso centrale, gli adeno-virus sono i veicoli più efficienti e sicuri per la consegna della terapia direttamente a destinazione, ovvero ai neuroni.

Una speranza per alcune malattie rare

La terapia genica rappresenta un’opportunità di cura anche per alcune malattie rare, che oggi non hanno ancora una risposta terapeutica adeguata. E’ il caso della Sindrome di Lafora, una rara malattia neurodegenerativa dovuta a un difetto nel metabolismo del glicogeno. Questa sostanza si deposita sui neuroni provocando infiammazione e degenerazione, con attacchi epilettici. La Sindrome di Lafora è causata dalla mutazione di due geni che quindi non svolgono il loro ruolo e possono essere sostituiti da geni creati in laboratorio. Proprio su questo tema, ci sono entusiasmanti novità pubblicate su prestigiose riviste scientifiche: si parla di terapie innovative basate sulla sostituzione dei geni mancanti, e l’introduzione di enzimi che possono digerire i cosiddetti ‘corpi di Lafora’.

Terapia genica nella malattia di Lafora

Uno studio pubblicato a maggio 2021 spiega che, nella Sindrome di Lafora, il DNA complementare può essere inserito nelle cellule nervose per sostituire le proteine dei geni difettosi. Il DNA complementare contiene le istruzioni per la costruzione dei nuovi geni, che sostituiranno quelli difettosi. In queste terapie, la ‘consegna’ del DNA può avvenire con diversi metodi, tra cui virus, parti di esso o nanoparticelle e, per la Malattia di Lafora, viene utilizzato un adenovirus. Nonostante i molti vantaggi, ci sono però due ostacoli principali nel trattamento dei disturbi del sistema nervoso centrale, con terapia genica, attraverso l’uso degli adenovirus. Il primo è la barriera emato-encefalica, che limita il numero di particelle virali che arrivano alle cellule nervose, il secondo è il trasferimento del DNA a queste cellule.

Come arrivare al risultato

In che modo  sarà quindi possibile ottenere una cura? Gli scienziati hanno già individuato alcuni modi per aggirare la barriera emato-encefalica, uno di essi è quello di iniettare il virus direttamente nel liquido cerebrospinale e questa opzione è in fase di studio. Il secondo grande ostacolo è il trasferimento del DNA alle cellule nervose (trasduzione). Nella Malattia di Lafora praticamente ogni cellula del cervello è malata, quindi è necessario trasferire il DNA a tutte le cellule del sistema nervoso. Si stanno quindi progettando nuovi involucri per gli adenovirus, si chiamano capsidi e gli permettano di attraversare la barriera emato-encefalica. Oltre all’ingegneria del capside, sono in fase di studio nuove tecnologie per manipolare la barriera emato-encefalica, come gli ultrasuoni focalizzati, e i risultati preclinici sono promettenti. Una volta identificata una strategia adatta, l’intervento precoce sarà sempre cruciale per arrestare la neurodegenerazione e prevenire il danno esteso e irreversibile. E’ questo oggi l’obiettivo delle terapie per la Sindrome di Lafora: contenere i danni con farmaci e terapia nutrizionale chetogenica, in attesa della terapia genica.

Carola Pulvirenti

Bibliografia:

Cliccando qui trovi l’articolo scientifico Lafora disease: Current biology and therapeutic approaches  pubblicato il 16 giugno 2021 sulla rivista Elsevier.

La Malattia di Lafora si manifesta durante l’adolescenza

Negli scorsi giorni la prestigiosa rivista dell’Accademia Americana di Dermatologia JAAD ha pubblicato una curiosa analisi riguardo i post di Twitter relativi alla psoriasi. Stando ai dati raccolti, i pazienti si rivolgerebbero spesso ai social media per condividere le proprie esperienze e reperire informazioni sulla malattia. Tutto ciò considerato, viene da chiedersi: quanto sono affidabili le informazioni relative alla malattia che circolano sui social? Esplorare le intuizioni pubblicate dai pazienti può offrire punti di vista unici e permettere di studiare le loro preoccupazioni. Sarebbe utile quindi che i medici fossero maggiormente presenti sui social? Twitter è già stato utilizzato con successo per indagare una vasta gamma di condizioni dermatologiche, ma è la prima volta che viene utilizzato per la psoriasi.

I dermatologi e Twitter

I ricercatori della scuola di medicina dell’università del Colorado, in America, hanno identificato 574 account Twitter: 116 appartenenti a pazienti e 458 a non pazienti. I professionisti dell’assistenza sanitaria, stando a questa indagine, sarebbero relativamente poco presenti sul social e del tutto assenti in 25 stati americani. In particolare, meno di un terzo di questi operatori sanitari sarebbero dermatologi. Maggiormente presenti sono risultate, invece, le aziende commerciali della salute che si occupano di cure alternative non supportate da studi clinici validati. Su Twitter, addirittura il 68,1% delle discussioni inerenti alla cura della psoriasi sarebbero avviate proprio da queste aziende. Un dato, questo, che potrebbe diventare indicativo per quelle aziende farmaceutiche e sanitarie che ancora non investono su questo tipo di comunicazione.

Quali informazioni cercano i pazienti?

Fra i tweet pubblicati dai pazienti, è risultato prevalente l’interesse per l’advocacy, per le tematiche inerenti il supporto reciproco e le campagne di comunicazione. I tweet delle associazioni pazienti affetti da psoriasi, invece, sono più spesso orientati a sensibilizzare rispetto alla consapevolezza della malattia, contro lo stigma e l’isolamento sociale.

Ma l’attività non si è limitata a questo. Molti pazienti hanno messo in moto campagne rivolte ai rappresentanti politici ai fini di migliorare l’accesso alle cure. Alcuni hanno usato la piattaforma per fare domande e condividere opinioni sulle diverse opzioni terapeutiche disponibili. Tanti si sono rivolti domande l’un l’altro, sebbene molte di esse siano rimaste senza risposta.

Tutti questi dati, insomma, stanno ad indicare un bisogno insoddisfatto: quello di informazioni attendibili. I dermatologi potrebbero cogliere questo bisogno e costruire o migliorare la loro presenza online per offrire ai pazienti supporto e formazione.

Qui trovi il sito dell’Associazione italiana Pazienti Psoriasici, Amici della Fondazione Corazza

HIV e AIDS

La principale attività dello studiatissimo virus HIV (Human Immunodefincency Virus) è attaccare il sistema immunitario. Insua presenza l’organismo perde dunque le sue difese contro i microorganismi patogeni sia esterni che interni, per esempio la Candida, l’Herpes Zoster, la tubercolosi etc. Non solo. Questo virus può innescare persino tumori. Il linfoma e il sarcoma di Kaposi ne sono un esempio. L’insieme dei disturbi attivati dal virus prende il nome di Sindrome da Immunodeficienza Acquisita (AIDS) ed è la conseguenza tardiva dell’infezione da virus HIV.

Le origini dell’epidemia

Come il Covid-19, anche il virus HIV apparteneva esclusivamente al mondo animale, ma ha subito mutazioni per cui è riuscito ad infettare anche l’uomo. In seguito a queste mutazioni il virus è quindi passato all’uomo e nel 1920 si è diffuso dapprima nell’Africa coloniale e poi, in più larga scala, dando origine ad un’epidemia globale. Oggi purtroppo nel mondo si contano 75 milioni di persone con HIV e solo in Italia nel 2017 sono state segnalate più di tremila nuove diagnosi.

Come si trasmette l’HIV

L’Hiv si contagia attraverso il sangue, lo sperma, il liquido prespermatico, le secrezioni vaginali e il latte materno. La possibilità di contrarre l’HIV dipende, dunque, in gran parte dai comportamenti che adottiamo. Ricordare che durante i rapporti sessuali sia fondamentale l’uso del preservativo è ormai pleonastico.

Rispetto alle modalità di trasmissione, va aggiunto che di recente si è appurato come una persona con HIV in terapia efficace, con viremia non rilevabile, non trasmette il virus. Questo concetto è stato recentemente sintetizzato con “U=U” che significa: Undetectable = Untrasmittable.

Si cura bene se presa in tempo

Oggi fortunatamente ci sono moltissime opportunità di cura per le persone colpite da questo virus, e gli effetti collaterali di queste cure sono trascurabili rispetto ai benefici delle stesse. Generalmente si somministrano terapie altamente efficaci, dette Haart (Higly Active Anti-Retroviral Therapy), e che consistono nella combinazione di diversi farmaci antiretrovirali. Non si guarisce dall’HIV ma, se intercettato in tempo, si può tenere sotto controllo. A chi ne è affetto si può comunque garantire un’aspettativa di vita analoga a quella di un soggetto sano, nonché una buona qualità di vita. Nonostante i grandi risultati derivati da queste terapie, ancora oggi ogni anno 2 milioni di persone nel mondo muoiono di AIDS, e il ritardo nella diagnosi è fra le cause principali di tale esito, soprattutto in Italia.

Tanti servizi per assistenza e prevenzione del HIV

Grazie alla collaborazione fra il Sistema Sanitario Nazionale e le aggregazioni di cittadini, oggi vi sono moltissimi servizi per la prevenzione del AIDS.  L’Associazione Italiana per la Lotta contro l’AIDS (ANLAIDS) è la prima associazione italiana nata per fermare la diffusione del virus HIV. Essa offre supporto ai cittadini e organizza campagne di prevenzione su tutto il territorio italiano. L’Istituto Superiore di Sanità ha persino dedicato un numero verde (800 86 10 61) chiamando il quale è possibile accedere a informazioni su HIV e altre infezioni sessualmente trasmissibili.

Nuove frontiere per la cura dell’epilessia


Davvero interessante l’articolo su epilessia e autoimmunità pubblicato, in questi giorni, sulla pres
tigiosa rivista Science immunology. L’epilessia, un disturbo neurologico causa di convulsioni e perdita di coscienza, può mettere seriamente in pericolo la persona che ne è affetta. La terapia di antiepilettici disponibile oggi pare, però, funzionare solo per un terzo dei pazienti. Molto promettenti sembrano, invece, i risultati ottenuti con gli anticorpi monoclonali, ormai ampiamente utilizzati in vari ambiti della medicina.

GABA-cadabra: non è magia ma ricerca scientifica

Alla base della pubblicazione di cui sopra – che gli scienziati entusiasti hanno intitolato GABA-cadabra – vi è la scoperta che le crisi epilettiche possono essere provocate da autoanticorpi del paziente.  Questi autoanticorpi prenderebbero di mira i canali ionici del cervello, ovvero le proteine che determinano l’attività elettrica di muscoli, cuore e cervello. L’epilessia è, in effetti, caratterizzata proprio da uno squilibrio di questa attività elettrica trasmessa attraverso tali canali.

L’obiettivo delle nuove terapie antiepilettiche è quello di potenziare il GABA, il principale neurotrasmettitore inibitorio del nostro cervello. Va detto, tuttavia, che se il paziente presenta anticorpi contro il GABA, questo potenziamento non ha ragione di esistere, a patto di utilizzare anticorpi monoclonali. A tal fine Kreye e i suoi colleghi hanno generato, dal liquido cerebrospinale di un paziente affetto da encefalite di tipo GABAAR resistente al GABA, cinque anticorpi monoclonali.

Epilessia e autoimmunità

Ci sono voluti anni di studio per comprendere il meccanismo autoimmune causa di alcune crisi epilettiche. Il paziente con encefalite resistente al GABA resosi disponibile al prelevamento del suo liquido cerebrospinale ha permesso ai ricercatori di progredire negli studi. Sono stati utilizzate sofisticate tecnologie, sia in provetta che in organismi viventi, per esempio topi o neuroni coltivati in laboratorio. Questa ricerca, condotta contemporaneamente in diverse nazioni del mondo, ha permesso di ampliare le frontiere per la cura di questo disturbo. Individuare gli autoanticorpi consente di effettuare una diagnosi definitiva e l’accesso ad una cura efficace. 

Leggi anche: Un evento traumatico può provocare una malattia autoimmune?

Notte di luna piena vince il premio O.Ma.R. 

Carola Pulvirenti è tra i vincitori del Premio Omar 2021! L’articolo premiato è Notte di luna piena,  pubblicato su Il Bugiardino. ‘Per il linguaggio utilizzato nel fare informazione e la capacità di catturare l’attenzione del lettore. Per la visione poetica con cui viene affrontata la malattia rara. Per il rigore con cui l’autrice ha raccontato la vita quotidiana di una persona affetta dalla sindrome di Crigler-Najjar.” Il premio assegnatole le è stato riconosciuto con queste motivazioni. Il racconto, di genere fantastico, racconta la surreale realtà quotidiana della protagonista, la prima donna con la Sindrome di Crigler Najjar che sia riuscita ad avere dei figli.

L’Osservatorio Malattie Rare

O.Ma.R – Osservatorio Malattie Rare è la prima ed unica agenzia giornalistica dedicata alle malattie rare, ai tumori rari e ai farmaci orfani. Fondato nel 2010 da Ilaria Ciancaleoni Bartoli, l’Osservatorio oggi è riconosciuto come una delle maggiori fonti di informazione nel settore.

La cerimonia di premiazione è stata organizzata in collaborazione con numerosi stakeholder delle malattie rare tra cui Orphanet Italia, Fondazione Telethon, il CNMR dell’Istituto Superiore di Sanità, il CnAMC e la SIMeN. Di grande interesse è stato l’intervento della direttrice Ilaria Ciancaleoni Bartoli, che ha spiegato in che modo è cambiato, nel tempo, l’approccio nei confronti della malattia. Laddove passato prevaleva una tendenza a descrivere i meccanismi patologici delle malattie rare, oggi l’attenzione è più spesso rivolta alla qualità della vita delle persone che ne soffrono, e alle possibilità di queste ultime di vivere serenamente nonostante la malattia.

Dentro il titolo premiato

L’articolo Notte di luna piena nasce dall’esperienza pluriennale di Carola Pulvirenti nel counselling ai malati rari. “Ascoltando le storie di malattie rare,” – ha affermato l’infermiera – “ho capito che erano testimonianze di grande coraggio e umanità, esperienze di vita che bisognava raccontare.” Così è accaduto che, su proposta di Carlo Negri, direttore della testata giornalistica Il Bugiardino, Carola ha avviato questa attività. Il Bugiardino è un periodico di Medicina Narrativa e Medical Humanities e Carola è un’infermiera con competenza in medicina narrativa. Da qui la possibilità di mettere in atto un intervento basato sulla somministrazione di un’intervista narrativa al caregiver della persona con malattia rara. “Pazienti e caregivers ci hanno ringraziato di cuore – ha detto Carola – sia per il tempo dedicatogli che per l’ esperienza vissuta attraverso la Medicina Narrativa.”

Di seguito è possibile leggere il racconto. L’autrice Carola Pulvirenti ne ha realizzato anche la presentazione grafica.

Il 26 novembre 2021, nella meravigliosa Sala Zuccari in Senato, la professoressa Delia Goletti ha ricevuto il premio She Made A Difference – Donna Leader. La Goletti è medico specializzato in malattie infettive, responsabile dell’Unità di ricerca traslazionale dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Spallanzani di Roma e docente di Patologia Generale alla Facoltà di Medicina dell’Università Unicamillus di Roma.

La rete europea per lo sviluppo delle donne leader

Il premio annuale She Made A Difference – Donna Leader, è organizzato dalla delegazione romana dell’European Women’s Management Development Network (EWMD). Si tratta di una rete di professioniste attivamente impegnate nella condivisione di esperienze e pratiche di eccellenza. EWMD Italia premia annualmente donna che si distinguono per meriti nella propria professione, negli ambiti più disparati. La mission di questo network è intercettare una rappresentanza di donne in posizioni apicali ai fini di implementare modelli organizzativi che ne favoriscano la crescita.

Ricercatrice italiana di fama internazionale

Prof.ssa Delia Goletti

La professoressa Delia Goletti è una ricercatrice annoverata fra i migliori scienziati italiani, autrice di un brevetto nell’ambito della tubercolosi di cui si occupa da anni. Da anni lavora anche allo studio dell’echinococcosi cistica e dei rischi infettivi legati all’uso dei farmaci biologici. Con l’arrivo della pandemia, la professoressa Goletti ha indirizzato il suo team allo studio di numerosi argomenti legati al Sars-Cov-2 e alla malattia da esso provocata.

Fra le sue pubblicazioni più recenti vi è un articolo – pubblicato sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine – che valuta il ruolo del Barictinib come terapia per COVID-19.  Di grande rilievo anche quello che valuta la messa a punto di un sistema di laboratorio per rilevare la risposta immunitaria T-specifica a SARS-CoV-2. Il sistema, usato anche nei pazienti reumatologici o con sclerosi multipla in terapia con farmaci immunomodulanti e vaccinati contro COVID-19, ha permesso di dimostrare che la risposta vaccinale era presente anche se con magnitudine diversa a seconda del farmaco immunomodulante usato.

Delia Goletti Made A Difference

Chiediamoci quindi perché Delia Goletti fa la differenza rispetto a molte altre professioniste del mondo medico. Per certo, come i più grandi ricercatori, Delia ha più domande che risposte. La sua attività scientifica non solo richiede molte ore di studio, ma anche grande curiosità. Profondo il rispetto che porta ai suoi pazienti, la sua capacità di accogliere e ascoltare tutte le professionalità con cui collabora. In occasione della premiazione, la professoressa Goletti ha raccontato – emozionando l’uditorio – il suo percorso professionale fino alle grandi collaborazioni, come quella con Antony Fauci, con cui ha lavorato quattro anni ai tempi della pandemia HIV. Insomma qual è il segreto di questo grande successo? “Ascoltare i pazienti,” sostiene la Goletti, “perché sono i pazienti che hanno tutte le domande scientifiche cui vale la pena rispondere.”

Soffitto della Sala Zuccari, Palazzo Madama, Roma.

Covid-19: e chi non può vaccinarsi?

La campagna vaccinale continua a salvare vite, ma purtroppo una parte significativa della popolazione mondiale per motivi di salute non può vaccinarsi. Esiste oggi una terapia contro il Covid per tutelare queste persone? Molte di esse sono già largamente utilizzate, ma si limitano a contrastare i danni dell’infezione da Covid, non essendo in grado di impedire la replicazione del virus. Più interessante per il suo meccanismo d’azione sembrerebbe, invece, la terapia antivirale, su cui diverse case farmaceutiche stanno attivamente lavorando.

La terapia anti-Covid disponibili oggi in Italia

L’Organizzazione Mondiale della Sanità aggiorna regolarmente le linee guida per la gestione clinica dei pazienti affetti da Covid-19. Ad oggi, però, i farmaci consigliati sono in grado soltanto di contrastare gli effetti dell’infezione, prima fra tutti la grave reazione infiammatoria sistemica. Questi farmaci sono gli antagonisti dei recettori dell’Interleuchina 6 – Tocilizumab e Sarilumab – per i pazienti con Covid-19 severo o critico; e il Regeneron – Casirivimab e Imdevimab – per i pazienti con forme lievi, ma a rischio di progredire verso l’ospedalizzazione, nonché per i pazienti con Covid severo o critico che non abbiano ancora sviluppato gli anticorpi contro il virus. In qualche caso, l’OMS fornisce indicazioni anche sull’utilizzo di corticosteroidi, sconsigliati, però, nelle forme lievi di Covid-19 perché in grado di favorire la replicazione del virus.

La terapia antivirale

Il limite di questi farmaci, come annunciato, starebbe nel fatto che si limitano a migliorare le implicazioni di una infezione già in corso. La grande novità nella gestione della infezione da Covid-19 consisterebbe, invece, nella terapia antivirale. La scoperta è delle case farmaceutiche Merck e Pfizer, che hanno di recente prodotto delle compresse in grado di limitare la replicazione del virus ben prima che esso possa danneggiare l’organismo che lo ospita. Si tratterebbe, infatti, proprio di inibitori delle proteasi, enzimi necessari ai virus per replicarsi. Bloccando questi enzimi, il virus si replicherebbe molto meno e l’organismo avrebbe modo di contrastarlo. Questo farmaco non è stato ancora distribuito in Italia, ma per altri scopi è stato già utilizzato nel nostro paese: in passato, ha rivoluzionato le cure di due gravi malattie come epatite C e HIV.

Dai primi risultati, sembrerebbe cruciale il momento della somministrazione di queste compresse. Risultati migliori, infatti, si sono ottenuti quando somministrate nei primi giorni dalla comparsa dei sintomi dell’infezione da Covid-19.

Ha senso vaccinarsi?

Finora, queste nuove terapie sono state sperimentate solo in soggetti a rischio come i non vaccinati che avevano qualche patologia. Sono in corso, però, nuovi studi clinici su popolazioni di persone vaccinate e che non hanno particolari fattori di rischio per la forma grave di Covid-19. Inoltre, si intende verificare l’efficacia di questi farmaci quando somministrati a chi convivesse con una persona positiva al Covid-19. Sarà bene, in questo contesto, chiarire che questi nuovi farmaci non sostituiscono i vaccini su cui gli scienziati di tutto il mondo continuano attivamente a lavorare.

La risposta al vaccino anti-Covid in caso di terapia con Rituximab

Nelle persone con malattie autoimmuni, la terapia con Rituximab riduce drasticamente la risposta anticorpale ai vaccini mRNA contro il SARS-COV-2. Lo conferma uno studio pubblicato in questi giorni. Sottoporsi a vaccinazione dopo aver ricevuto una dose di Rituximab sarebbe quindi sconsigliato, almeno per i primi sei mesi dalla somministrazione del farmaco.

Cosa è accaduto durante la pandemia?

A dire il vero, cautele di questo tipo erano già incluse nelle linee guida per la vaccinazione dei pazienti con malattie immunomediate in terapia con immunosoppressori, pubblicate nel 2019. Prima di sottoporre il paziente alla terapia con Rituximab – si precisava – occorre attendere almeno un mese dopo il vaccino. Nonostante queste indicazioni, però, durante la pandemia si sono vaccinati pazienti sottoposti a Rituximab prima che trascorressero i tempi consigliati. Altri pazienti sono stati sottoposti a vaccinazione anti Covid senza che si aspettassero i sei mesi dalla terapia con Rituximab.

Gli effetti di Rituximab sulla risposta del vaccino

Sono stati i ricercatori dell’Hôpital Bicêtre di Parigi a presentare questo studio al Convergence 2021 dell’American College of Rheumatology (ACR). Il nucleo dello studio sarebbe la bassa risposta anticorpale al vaccino anti-Covid dei pazienti con malattie autoimmuni sottoposti a Rituximab. I ricercatori avrebbero analizzato tale risposta in pazienti sani e non, vaccinati con Pfizer-BioNTech, 28 and 56 giorni dopo la vaccinazione iniziale. Non solo. Il team ha messo in luce che i pazienti affetti da patologia autoimmune e sottoposti alla terapia monoclonale addirittura presenterebbero un rischio tre volte maggiore di morire per infezione da Covid-19. Si tratta di dati compatibili con altre ricerche presentati di recente all’ACR anche da investigatori israeliani. Nonostante l’incredibile efficacia dei vaccini ad mRNA, dunque, va tenuto conto che alcuni pazienti immunocompromessi non rispondono a questi vaccini allo stesso modo della popolazioni sana.