Dopo essermi documentata riguardo la medicina narrativa, ho avvertito il desiderio di metterla in pratica. In quel periodo ho conosciuto Carlo Negri, Direttore Responsabile della rivista Il Bugiardino, mensile di medicina e medical humanities. Con Carlo non ci siamo mai incontrati, ma siamo entrati subito in sintonia per la passione comune per medicina, narrativa e comunicazione, così mi ha proposto di scrivere racconti di narrativa sulle malattie rare. Ho scelto il metodo dell’intervista narrativa ed ho deciso di intervistare i caregivers familiari delle persone con malattie rare. Attraverso la mia rete di contatti nell’ambito, ho individuato i caregivers ed ho somministrato un’intervista narrativa semistrutturata. Quindi ho redatto un racconto basato sull’esperienza del caregiver e sulle informazioni scientifiche relative alla malattia, senza rinunciare ad uno stile narrativo di fantasia.  Così sono nati i racconti di medicina narrativa nelle malattie rare, con l’aiuto di Bibi, li ho raccolti in questa pagina.

 

La storia inizia quando il nostro primo figlio aveva circa 7 mesi. Un venerdì sera abbiamo notato che il piedino sinistro era rosso, nella sua parte esterna. Questo arrossamento è stato in seguito definito come ‘vasculite’. Dopo un paio d’ore, in prossimità del mignolo del piede sinistro, sono comparse tre bolle, di cui una grossa e le altre di dimensioni minori.

L’attesa per la diagnosi

Lo abbiamo pertanto portato in ospedale dove inizialmente ci hanno diagnosticato una generica dermatite bollosa (nostro figlio ha anche la dermatite atopica in forma media, non seria). A quel punto abbiamo deciso di portarlo da una specialista in malattie della pelle in età pediatrica, la quale ci ha diagnosticato il Pemfigoide Bolloso, una reazione della pelle dovuta alla vaccinazione. Circa un mese e mezzo prima della comparsa delle bolle, il bambino aveva sostenuto una delle vaccinazioni del primo anno.

Pemfigoide Bolloso

Inizialmente il medico non ci dette alcuna spiegazione di cosa fosse il Pemfigoide Bolloso, solo a casa, approfondendo, abbiamo conosciuto la realtà di questa malattia. Non avevamo idea fosse una malattia autoimmune. Lo associavamo solo ad una reazione da vaccinazione.
Per questo mi sono subito messa in contatto con l’Associazione Nazionale Pemfigo Pemfigoide Italy,  nelle persone di Giuseppe e Carola che ci hanno supportato con informazioni, accogliendo le nostre paure, standoci vicino nel modo più generoso che potesse esserci. Nelle visite, che si sono susseguite, ci è stato detto che il Pemfigoide Bolloso da vaccinazione, negli infanti, generalmente comporta una sola manifestazione, oppure dalle due alle tre, le ultime delle quali di intensità più lieve rispetto alla prima manifestazione e tende a non manifestarsi più.

Certamente sappiamo che nostro figlio è probabilmente un soggetto geneticamente predisposto, e questo fa di noi dei genitori che non abbasseranno mai la guardia su questa malattia. Una condizione che necessita di essere prima conosciuta e poi supportata.

Ringraziamo l’associazione con tutto il nostro cuore.

 

Festa della mamma

Vogliamo celebrare la festa della mamma raccontando una storia vera, per l’esattezza un Case Report pubblicato alcuni anni fa. Il caso di una giovane mamma che ha accettato di rischiare la propria vita per mettere al mondo la creatura che portava in grembo. Tutte le mamme corrono dei rischi, la differenza sta però nel fatto che questa donna di ventisei anni sapeva di essere affetta da una rara malattia genetica, la malattia di von Willebrand (VWD). Si tratta di una coagulopatia ereditaria che può ridurre la quantità o la funzione del fattore di von Willebrand (VWF), proteina plasmatica fondamentale per la coagulazione del sangue, e provocare anche emorragie fatali.

La preoccupazione dei medici

Piastrine nel sangue

Fu proprio in virtù di questa patologia che si decise di far seguire la donna, durante la gravidanza, a un team multidisciplinare di ostetriche, ematologi e anestesisti. Non solo, in accordo con lei, i medici disposero meticolosi piani di cura per tutte le fasi gestazionali, incluso il post-partum.  La mamma fu sottoposta a controlli periodici e a continue verifiche dei livelli delle piastrine, proteine necessarie a evitare emorragie, sia interne che esterne all’organismo. 

La malattia non si ferma, la mamma neppure

Durante la gravidanza, quando i medici rilevarono una riduzione progressiva e inesorabile delle piastrine, decisero di indurle il travaglio in anticipo. L’obiettivo era proprio evitare un ulteriore peggioramento della trombocitopenia. Così, all’inizio del travaglio, vennero richieste quattro unità di piastrine.

Nonostante quanto si era predisposto, la paziente entrò poi in travaglio spontaneo. Le vennero subito trasfuse due unità di piastrine e la donna partorì un maschio sano di tre chili con un punteggio di Apgar di 9. La perdita di sangue al momento del parto risultò nella norma.

La diagnosi di una malattia rara

La rarità di queste patologie le rende molto difficili da gestire, anche perché spesso mancano le competenze per effettuare diagnosi corrette e tempestive. Ci auguriamo che questo raro caso possa fornire qualche indicazione in più sia ad ostetriche ed ematologi. I medici che hanno assistito questa donna raccomandano di includere la ricerca del fattore di von Willebrand negli esami da suggerire alle donne gravide che presentino trombocitopenia per la prima volta. Del resto, è opinione di molti medici che se la malattia di Von Willbrand di tipo piastrinico fosse sufficientemente investigata, sarebbe molto più comune di quanto lo è oggigiorno.

La mamma è uno sguardo d’amore e una carezza che cura. Da grandi impariamo a farne a meno ma, a qualunque età, ogni tanto un pensiero vola alla persona che ci ha dato la vita.”

Carola Pulvirenti

Rino ha aperto l’acqua calda e ha poggiato le candele sul bordo della vasca. Un fiotto caldo ora scorre fragoroso mentre la radio trasmette soft-jazz. Il bagno si riempie di vapore, lo specchio si appanna e l’ambiente si scalda: è un momento d’amore. Non sarà lui, però, ad entrare nella vasca. Lui si siederà accanto a Dafne per coccolarla e tenerle la mano. Amare una donna rara vuol dire anche tutto questo. 

Dafne, vieni a fare il bagno?
Nooooo!
Dai amore, vieni! Dobbiamo farlo, lo sai!

Dafne ama Rino, ma non ama fare il bagno. Dafne vive avvolta come una mummia nelle bende, e fare il bagno è l’unico modo per togliere queste garze fastidiosissime che si appiccicano sulla pelle. Fare il bagno, però, è doloroso, perché Dafne è senza pelle e i suoi nervi sono scoperti. Ha una malattia rara, Dafne, che si chiama Pemfigo.

Nel corpo di chi soffre di Pemfigo alcuni anticorpi difettosi distruggono le cellule della pelle. Non ci sono ancora cure certe per questa malattia, ma, ad oggi, solo qualcosa che fa ben sperare: si tratta della terapia con anticorpo monoclonale, in grado di distruggere e quindi ridurre la quantità di questi auto-anticorpi difettosi. Distruggendo questi anticorpi, però, questo trattamento agisce anche sulla produzione di quelli sani – necessari a contrastare le infezioni -, annientandoli. È per questo motivo che il medico di Dafne decide di rimandare la cura biologica: Dafne soffre anche di una malattia infettiva e quel tipo di trattamento può esserle letale.

Così, per un lunghissimo anno, ogni due giorni, Rino ha preparato il bagno per Dafne e, dopo il bagno, si è occupato di medicarla con tutte le accortezze possibili, vista la grande perizia che richiedono le medicazioni da Pemfigo. Per un lunghissimo anno Rino ha preparato la cena, ha rassettato la casa, è andato a lavorare. Per un lunghissimo anno Rino si è dedicato a lei con nobilissima dedizione. Amare una donna rara significa anche tutto questo. 

Una volta al mese, i due viaggiavano in auto per 200 chilometri per recarsi presso il centro specializzato per la cura del Pemfigo. Quei viaggi, per Dafne, erano lunghi e dolorosi: con le sue ferite stare così a lungo seduta era tremendo. 

Durante i ricoveri, Rino lavorava al computer accanto alla sua donna che faceva terapia con immunoglobuline, delle proteine con funzione di anticorpi. Esse le venivano infuse nella speranza che ripristinassero il corretto funzionamento del suo sistema immunitario.

Nonostante questo trattamento, ogni giorno, però, nuove bolle spuntavano sulla pelle di Dafne. Rino cercava dappertutto soluzioni per medicarla. Chiedeva consiglio a pazienti, professionisti, in ospedale, in rete. Una malattia rara si cura anche così, per tentativi. E amare una donna rara significa fare più di quanto è possibile. 

Dopo un lunghissimo anno, Dafne ha finalmente curato la malattia infettiva ed ha potuto sottoporsi alla cura biologica, che ha avuto l’effetto sperato. Adesso Rino e Dafne, che stanno ricominciando a vivere una vita normale, possono anche fare una passeggiata insieme. Dafne è tornata a sorridere, abbracciare, vestirsi, uscire di casa.

L’altro giorno a Rino arriva una telefonata. È una donna gli chiede aiuto: Mia madre sta molto male, è piena di bolle! Ha il Pemfigoide e noi non sappiamo cosa fare”. Rino ha appena terminato il calvario della moglie, ma il suo cuore è grande. Va a casa dell’anziana signora e le spiega come gestire le sue difficoltà, offrendo anche a lei conforto e sostegno, forte della sua esperienza con Dafne. È lui, insieme a Dafne, l’altro piccolo grande eroe e il protagonista di una storia di coraggio e profonda dedizione.  

Questo racconto di medicina narrativa è vero in ogni sua parte ed è stato pubblicato su Il Bugiardino, mensile di Medicina e Medical Humanities.

Il segreto della vita frenetica di Eva

C’è un segreto nella vita frenetica di Eva, ma sarà svelato alla fine di questa storia. Quando Eva passeggia, la notano tutti: andatura vivace, lunghi capelli castani e ricci, seno generoso, vita stretta e piedi sottili nei sandali col tacco. Gianni la ama da anni. Lei sembra indifferente, una farfalla leggera che non si fa prendere mai, eppure, dopo qualche anno, Eva si accorge di lui. Ammaliato dai suoi occhi neri, Gianni può darle finalmente il bacio che sognava da tempo.

La donna supera di gran lunga le aspettative di Gianni: è molto intelligente, passionale e dinamica, studia architettura e conosce tre lingue. Per lui è una dea onnipotente e alcuni dettagli lo portano a credere che sia davvero sovrumana: il cuore di Eva batte velocissimo, molto più veloce del suo, e nei momenti d’intimità Gianni se ne accorge. Eva, nota Gianni, sembra restare sempre sveglia, quasi che non abbia mai bisogno di dormire.

Un pomeriggio, davanti a due spritz ghiacciati, Gianni è assorto, indeciso se fare o no qualche domanda alla sua ragazza. Lei chiacchiera energicamente e prima che lui proferisca parola, gli dice: “Mi hanno offerto un lavoro a Sidney, partiamo insieme?”. Gianni ha un contratto a tempo indeterminato, non è mai stato così lontano dalla Sicilia per così tanto tempo, ma non ha alcuna intenzione di lasciarsi sfuggire la sua dea, così, nonostante il malcontento di amici e genitori, decide di partire con lei e nella nuova città trova lavoro come cameriere in un ristorante italiano.

La partenza

I due lavorano tanto e s’ incontrano per poche ore al giorno, ma tutto prosegue serenamente. Una sera, però, qualcosa accade: Eva torna a casa con l’aria stravolta e un grande cerotto bianco sul collo. Alle domande insistenti di Gianni, risponde solo di aver preso freddo. Quella sera qualcosa si incrina nel loro rapporto. Qual è il segreto della vita frenetica di Eva? Cosa gli nascondeva? Gianni è stufo di sentirsi estromesso dalla vita della sua compagna e al rientro in Italia la coppia entra in crisi. Eva e Gianni trascorrono diversi mesi lontani: Gianni al suo vecchio lavoro ed Eva immersa nello studio.

La confessione: prima della partenza…

E, però, certi amori non si arrendono al primo ostacolo. Qualche mese dopo, infatti, i due si riavvicinano come calamite. Stavolta l’aperitivo è più ricco: due calici di Nero d’Avola e due arancini al pistacchio. Il momento della verità è arrivato. Gianni guarda Eva dritto negli occhi, senza esitazione: vuole sapere tutto di lei. Eva ha un groppo in gola, così prende un sorso di vino, e racconta:

– Tre anni fa ho notato qualcosa di diverso nel mio viso, avevo un aspetto affaticato e gli occhi gonfi. I cambiamenti erano minimi, ma ho iniziato subito a detestarli. Mi sono rivolta ad un chirurgo estetico che mi ha chiesto settemila euro. Io non li avevo, così ho trovato un modo veloce per ottenere dei soldi: un programma sperimentale di biotecnologia informatica coordinato da una clinica privata australiana. Compensi altissimi sono offerti, per la ricerca, ai volontari che si offrono di farsi impiantare nel collo un microchip. Si tratta di un microprocessore che si connette al cervello umano e consente di governare tutti i dispositivi informatici collegati al proprio account: praticamente qualunque oggetto che sia collegato ad una rete wireless. L’obiettivo della sperimentazione è quello di valutarne la tollerabilità per gli esseri umani.

… e dopo

Due anni fa mi hanno impiantato il chip e subito mi hanno dato metà del compenso. Ho fatto poco dopo l’intervento di medicina estetica al viso, ma ancora non mi sentivo bella, ancora non mi piacevo, nonostante grazie al microchip riuscissi a fare cose incredibili. È stato in quel periodo che mi sono avvicinata a te, in quel periodo ci siamo messi insieme.

Dopo sei mesi però ho iniziato ad avere dei disturbi: ero nervosa, avevo le palpitazioni e non riuscivo a dormire. L’ho segnalato ai medici del progetto che mi hanno richiamato a Sidney per alcuni controlli. È per questo che ti ho chiesto di partire con me e venire qui. Le analisi fatte in Australia hanno evidenziato un ipertiroidismo autoimmune. Praticamente il mio organismo ha rifiutato il microchip e la tiroide è andata fuori controllo: hanno dovuto toglierla! E’ successo quella sera che sono tornata a casa con il cerotto sul collo, ricordi?

Il confronto

– Certo che mi ricordo, mi dicesti che avevi preso freddo. Perché non mi hai detto dell’intervento?

– Non volevo raccontarti tutto, mi avresti preso per matta. Oltretutto qualcuno suppone che la mia tiroide non funzionasse bene già prima del microchip. Ma te li ricordi i miei occhi deformati? 

– Eva, sei matta? Non c’è niente che non vada nei tuoi occhi! Quanto ti hanno pagato per questa cosa?

– Tanto, ma ho già speso praticamente tutto. L’esoftalmo mi ha rovinata!

– L’eso che?

– Non lo vedi che ho ancora, nonostante la chirurgia, gli occhi gonfi e sporgenti?

– No Eva, tu hai dei bellissimi occhi!

– Tu non capisci, io sono un’esteta! Come fai a non accorgerti di come sono cambiati i miei tratti? E ora, nonostante i due interventi di chirurgia estetica, il problema al volto non si è risolto e io mi vedo peggio di prima. Non volevo nessuno accanto, per questo mi sono allontanata anche da te. Adesso devo trovare i soldi per fare un’altra operazione. Dovrò farmi reinserire il microchip.“

– Evaaaa ! Hai 33 anni! Non hai altri pensieri da ragazza normale? Tipo trovarti un lavoro vero e metter su famiglia? Guardati, Eva! Sei bellissima! Non hai niente che non vada! Io ti ho sempre voluto bene così. Non ho intenzione di starti a guardare mentre sprechi la tua vita così! Adesso ti chiedo di scegliere: me o la chirurgia.

L’epilogo

Eva guarda Gianni dritto negli occhi, ma rimane in silenzio per il resto del pomeriggio. Poi i due si salutano freddamente. Gianni ha fretta di andare a casa e mettersi al pc e cercare: digita “ipertiroidismo autoimmune, occhi gonfi”. Questa la risposta del motore di ricerca: Morbo di Basedow-Graves, una rara malattia della tiroide che può provocare tachicardia, insonnia, irritabilità, depressione, ipercinesia ed esoftalmo. La storia del progetto di biotecnologia non convince pienamente Gianni, che rimane alcuni minuti con lo sguardo fisso verso il monitor a chiedersi se Eva ha mentito o delirato. Era quel morbo il segreto della vita frenetica di Eva. Il giovane fa un lungo respiro mentre raddrizza la schiena, poi prende il telefono e le manda un messaggio:

-Sei sveglia?

-Sto in spiaggia.

-Arrivo.

Gianni da lontano riconosce la sagoma della donna, seduta in riva al mare a gambe incrociate. Mentre cammina verso di lei, avverte come un sollievo nella brezza marina. Si accorge allora di essere in preda a una sensazione nuova: in lei non vede più una dea onnipotente, ma una donna da amare con le sue fragilità. Adesso che ha scoperto il segreto della vita frenetica di Eva, è più sereno. L’abbraccia forte, fortissimo.

-Eva, vuoi sposarmi?

Questo racconto di medicina narrativa è stato pubblicato su Il Bugiardino, mensile di Medicina e Medical Humanities.

Tilly: una straordinaria storia di luce

Comincia così questa straordinaria storia di luce. Era una notte di mezza estate e una luna piena splendeva sugli alberi di un folto bosco pervaso dall’odore di muschio umido. Il silenzio era rotto soltanto dal canto di qualche civetta. Sotto la chioma di una grande quercia, un gruppo di elfi si affollava attorno ad un ciclamino rosa, in attesa che sbocciasse. Quando il fiore si aprì, svelò il suo segreto: una piccola fata con gli occhi grandi e neri era appena nata. La bambina subito sorrise, ma gli elfi la fissarono con sguardo perplesso. La sua pelle paffuta non era rosea come quella di tutte le fate, ma giallastra. 

L’elfo Raul

Un elfo di dieci anni di nome Raul si avvicinò al ciclamino rosa, prese in braccio la bambina e disse: “Poiché brilla come il sole, la chiameremo Tilly, Scintilla”. Poi, per comprendere il significato di questo evento mai accaduto prima, la condusse dal grande gnomo saggio. Quando la vide, il grande gnomo le girò attorno e la scrutò attentamente prima di emettere il suo verdetto: “Questa fatina è malata e in tutto il bosco non c’è una pianta che potrà curarla, tuttavia ella non morirà se farete ciò che io vi dirò: tutte le notti dovrete farla dormire nuda sotto la luce bianca della luna piena”. Così poté continuare la straordinaria storia di luce di Tilly. 

L’amore

La fata crebbe bella e in salute, divenne una sedicenne solare ed estroversa e conobbe presto l’amore: Raul, un elfo silenzioso e timido che la amava da sempre. I due giovani, che amavano sognare e pensare in grande, desideravano di potersi un giorno sposare nel mondo degli umani, nei boschi verdi della Scozia. Oggi Tilly è una donna e si chiama Beatrice. Anche lei è nata con la pelle gialla. È lei la vera protagonista di questa straordinaria storia di luce.

La pelle di Tilly

Il colore della sua pelle è dovuto all’accumulo di una sostanza chiamata bilirubina, generalmente un segno che il fegato non funziona bene. Nel caso di Beatrice, questo insolito colorito è causato ad una malattia molto rara, la Sindrome di Crigler Najjar: per via di un difetto genetico, il fegato non riesce a svolgere al meglio le proprie funzioni. Nelle persone sane, il fegato si occupa di trasformare la bilirubina per renderla eliminabile dall’organismo; chi ha la Sindrome di Crigler Najjar, invece, a causa dell’assenza di un enzima, non riesce a smaltire la bilirubina, che accumulandosi può provocare gravi danni, soprattutto al sistema nervoso. 

La luce, una speranza

Non ci sono cure per questa malattia. In passato la maggior parte dei bambini veniva sottoposta a trapianto di fegato. Una speranza arriva, oggi, dalla terapia genica, una tecnica innovativa ma ancora in fase sperimentale; c’è poi un altro sistema, di più facile accesso, che garantisce la sopravvivenza: dormire nudi sotto una lampada a raggi ultravioletti, per tutta la vita. La luce, infatti, permette all’organismo di trasformare la bilirubina in un composto eliminabile. 

I veri protagonisti e un dono meraviglioso

I veri protagonisti di questa storia si chiamano Paolo e Beatrice. Oggi vivono in Emilia Romagna e si sono sposati ad Edimburgo. È stato un matrimonio da favola il loro e altre meravigliose notizie li attendevano. I due innamorati desideravano avere un bambino, ma in tutta Italia nessuna donna con la Sindrome di Crigler Najjar aveva mai avuto un figlio. L’accumulo di bilirubina, purtroppo, finisce per causare anche intossicazione del feto. Si sarebbe trattato di una grande sfida per i due futuri genitori che però non si arrendevano all’idea di rinunciare al loro sogno. Il fervido desiderio ha, dunque, fatto nascere un’idea: Beatrice avrebbe dormito su una rete elastica, con una lampada sotto di sé ed una sopra, senza coperte, né materasso, in modo da far arrivare quanta più luce possibile sulla sua pelle. Nove mesi così sono stati difficili, ma alla fine è nato un bambino perfettamente sano. Una straordinaria storia di luce.

 

Beatrice oggi

La gioia per questo dono meraviglioso e per nulla scontato è stata immensa ed ha vanificato tutte le fatiche, al punto che un anno e mezzo dopo, di dono ne è arrivato un altro. Beatrice è oggi la donna italiana più longeva con la Sindrome di Crigler Najjar. È diventata biotecnologa ricercatrice ed è parte del comitato scientifico dell’Associazione Crigler Najjar Italia Malati Iperbilirubinemici. Il ricercatore, sostiene Beatrice, è un ottimista che gioisce dei pochi risultati per far fronte ai numerosi insuccessi. Il bello del suo lavoro, però, non è la meta, ma il percorso. Beatrice ama le sfide e le affronta insieme a Paolo, con quel pizzico di incoscienza che da sempre li contraddistingue.

Paolo e Beatrice dormono da sempre nello stesso letto, in compagnia della lampada a raggi ultravioletti. Paolo racconta che lui la lampada di Beatrice la accende comunque, anche quando lei dorme fuori casa: ora quella luce azzurra è diventata parte della sua vita.

Questo racconto di medicina narrativa è stato pubblicato su Il Bugiardino, mensile di Medicina e Medical Humanities.

 

L’incredibile metamorfosi di Anna

Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Anna si trovò trasformata in un enorme pesce con le squame. Sdraiata sulle lenzuola, sentì la pelle bruciare e tirare come fosse secca e ferita. Si guardò allo specchio e si accorse della sua incredibile metamorfosi. Sulle prime credette di dormire ancora, ma poi realizzò che quel dolore era reale.

Un giorno dopo l’altro, Anna andava abituandosi al nuovo sembiante, supportata da una mamma e un papà che la amavano moltissimo. All’età di cinque anni, non faceva più caso al suo corpo deforme, e si era quasi convinta di essere una bambina come le altre e non una pesce. 

Il primo giorno di scuola

Il primo giorno di scuola Anna era piena di entusiasmo e non vedeva l’ora conoscere i suoi compagni. Al suono della campanella della ricreazione, sentì l’emozione invaderla forte al centro del petto. Frenata da un certa timidezza, però, rimase seduta al banco. Radunati in piccoli gruppi, i compagni parlavano con le mani davanti alla bocca e ogni tanto la guardavano ridacchiando.

Prima che Anna potesse accorgersene, Samuele, un bambino magro con i capelli arancioni e ricci, si diresse verso di lei, allungò la mano e le porse una caramella. Contenta di quel dono, Anna fece un gran sorriso, aprì la caramella e la mise in bocca, mentre i compagni le si radunarono attorno. La zuccherosa caramella, però, rivelò presto un sapore fortissimo e amaro. Anna ebbe voglia di vomitare, ma deglutì. Non voleva deludere i compagni, nonostante avesse inteso che erano stati loro ad ordire quello scherzo così antipatico: il dono di un aglio ricoperto di zucchero. Ciò che Anna non sapeva era che di scherzi spiacevoli ne avrebbe subiti ancora e ancora. 

Una decisione difficile

Per via delle continue vessazioni, la bimba crebbe sentendosi inadeguata e sgradevole, fino a quando a diciotto anni decise di togliersi la vita. Un giorno si chiuse in bagno e riempì la vasca. Dall’acqua era venuta e nell’acqua voleva tornare, per restarci per sempre. Con la testa diritta entrò in acqua e si sedette nella vasca. Mentre ripercorreva la propria vita, nella disperazione più profonda, si guardava con ribrezzo pancia, gambe, la pelle arrossata, le chiazze grigie, le grinze, le squame.

L’illuminazione

Fu proprio a quel punto, in quel momento che sembrava cosi definitivo e ultimo, che si accorse che qualcosa stava cambiando. La pelle, in acqua, sembrava disciogliersi e le squame pareva si staccassero. Un’illuminazione! Doveva strappare via tutta la pelle malata! Fu così che iniziò a grattarsi forte dappertutto: la pelle andava via, in effetti, anche se faceva male, malissimo. Però cosa importava? Anna era furiosa, voleva liberarsi del mostro e diventare finalmente una donna. 

Dopo due ore di martirio, Anna era stremata, ma si era calmata e non pensava più al suicidio. Quando si alzò in piedi, guardò dritto nello specchio e si vide riflessa: era una donna con la pelle normale. Davanti agli occhi, l’incredibile metamorfosi di Anna. Soffrendo di ittiosi, una rara malattia della pelle che – come suggerisce l’etimologia della parola – la rende simile a quella dei pesci, i medici le avevano sempre sconsigliato di fare il bagno. E invece proprio l’acqua l’aveva aiutata. Che scoperta sensazionale. Anna era salva, nel corpo e nell’anima. Dio solo sa quanto è vera questa storia che vi ho raccontato: la protagonista non si chiama Anna, ma ogni giorno fa il bagno per due ore grattando via dal suo corpo la pelle morta che, altrimenti, vi rimarrebbe attaccata.

Questo racconto di medicina narrativa è stato pubblicato su Il Bugiardino, mensile di Medicina e Medical Humanities.