Una curiosa triade

Studi sperimentali hanno provato che, incredibilmente, la somministrazione di ormoni tiroidei (TSH) sia in grado di ridurre i danni di un infarto. In seguito, per esempio, ad infarto miocardico acuto (IMA), tali ormoni migliorerebbero la funzione miocardica. Oggi possono dirsi assodati i legami funzionali tra sistema cardiovascolare, ormoni tiroidei e vitamina D. Proprio pochi giorni fa uno studio ha dettagliato quelle che potrebbero essere le anomalie provocate da questa triade. Per esempio, al manifestarsi di un infarto, disturbi della tiroide anche minimi (ad es. Sindrome da T3 bassa), potrebbero associarsi a prognosi avversa.

Anche la vitamina D, quando non presente nelle giuste quantità, può causare patologie cardiovascolari. La carenza di questa sostanza, infatti, non è solo all’origine di problemi alle ossa, come si crede comunemente, ma di diverse altre patologie: diabete di tipo 2, neoplasie, malattie da  stress ossidativo (es. Hailey Hailey Disease), malattie infiammatorie (es. Sindrome di Sjögren), malattie autoimmuni e via dicendo.

Indaghiamo più nel dettaglio la fisiopatologia di questa triade – ormoni tiroidei, vitamina D e sistema cardiovascolare – che opera in modo così stretto.

La vitamina D e il sistema cardiovascolare

É noto che la vitamina D influenzi le malattie cardiometaboliche attraverso numerosi meccanismi: modulazione dell’attività muscolare, del sistema renina-angiotensina-aldosterone, dello stress ossidativo e della risposta infiammatoria. La grande novità consiste nel fatto che il rischio cardiovascolare oggi, per la prima volta, viene legato alla quantità ematica di vitamina D. Se i recettori della vitamina D sono presenti in una varietà di cellule e tessuti, incluse le cellule del muscolo cardiaco, non deve stupire più di tanto il dato che la vitamina D possa influenzare la contrattilità cardiaca. Proprio per queste ragioni la carenza cronica di questa sostanza predisporrebbe all’ipertensione e alla fibrillazione atriale e aumenterebbe, di conseguenza, il rischio di aritmie letali. Purtroppo, per ovviare a queste situazioni, non sempre basta l’assunzione di integratori a base di vitamina D: in moltissimi, infatti, in età adulta, sviluppano resistenza a questa sostanza.

Gli ormoni tiroidei e il cuore

Ampiamente riconosciuto è il ruolo degli ormoni tiroidei nel sistema cardiovascolare: lievi alterazione di questi ormoni possono aumentare il rischio di patologie cardiovascolari. Gli ormoni tiroidei, inoltre, giocando un ruolo cruciale nella regolazione di tutte le funzioni metaboliche del corpo umano, agiscono a livello cardiovascolare, influenzandone contrattilità cardiaca e resistenza vascolare sistemica. Non solo. Nelle malattie croniche, essi sono in grado di promuovere processi rigenerativi e riparativi ai fini di compensare condizioni di stress sistemico (Sabatino et al.,2014): in altre parole, sono in grado di avviare lo sviluppo di nuovi vasi sanguigni (angiogenesi), ridurre la morte cellulare (apoptosi) e migliorare la funzione ventricolare.

La vitamina D e le malattie della tiroide

L’apporto di vitamina D riveste, come attestano numerosi studi, un ruolo chiave anche nella predisposizione a molte malattie autoimmuni (sclerosi multipla, diabete di tipo 1, artrite reumatoide e via dicendo), anche della tiroide: tiroidite di Hashimoto, di Graves, post-partum. Non solo. Scarsi livelli ematici di vitamina D potrebbero giocare un ruolo persino sulla insorgenza e progressione del cancro della tiroide. Questa sostanza, di conseguenza, potrebbe rivelarsi utilissima nel trattamento di questa patologia, al netto di difficoltà ad assorbirla, come già accennato.

Il nostro corpo, insomma, non funziona per compartimenti stagni, ma esiste in funzione delle numerosissime interazioni tra le sostanze che in esso viaggiano. Per scoprirne i segreti profondi, è necessario proprio lavorare per decifrare queste interazioni, questo alfabeto nascosto.


Un Halloween molto, molto particolare

Un Halloween molto, molto particolare. È una mattina del trentuno di ottobre. Il bar è addobbato per Halloween: sul bancone, zucche di tutte le forme, scolpite in espressioni sinistre; sui muri, grandi e ripugnanti ragnatele. La cassiera Adriana, che è una grande osservatrice, si accorge, mentre si adopera con le stoviglie, che sono appena entrati una donna e il suo bambino. Coi volti inespressivi, si avvicinano a passi lenti alla cassa. Sembrano arrivare entrambi dall’oltretomba: il bambino ha il volto pallido, le labbra grigie e gli occhi incavati; la madre sembra esausta, senza forze. 

– Buongiorno! Cosa vi posso servire?

– Prendiamo due biscotti e un cappuccino, grazie.

Che strano vedere, al mattino, una mamma e il proprio figlio insieme in un bar. E la scuola? Oggi, deduce Adriana, per loro è forse una giornata diversa. Lei non saprà nulla di loro, ma quella mamma e suo figlio sono reduci da un mese terribile in ospedale.

Otto mesi prima

Tutto era cominciato otto mesi prima di quell’Halloween, quando il bambino aveva cominciato ad avvertire dolori diffusi alla schiena. Una notte, poi, si era svegliato di notte molto agitato, senza fiato, ed erano corsi al pronto soccorso. Poggiato il fonendoscopio sulla schiena del bambino, la pediatra aveva notato che nell’emitorace destro i rumori respiratori erano molto ridimensionati rispetto alla norma e gli aveva prescritto una radiografia. L’esame aveva rilevato del liquido all’interno della pleura, il tessuto membranoso che riveste i polmoni. Con grande sorpresa del medico, nelle lastre non si riuscivano a vedere la clavicola destra e alcune vertebre. Alcuni giorni dopo, una biopsia ossea avrebbe chiarito la situazione: alcuni vasi linfatici, attraversando l’osso, avevano creato delle zone di riassorbimento e riduzione del midollo.

La malattia dell’osso fantasma

Questi cambiamenti patologici a carico del tessuto osseo corrispondevano a quelli che si osservano nella malattia rara di Gorham-Stout, comunemente nota come malattia dell’osso fantasma. Si tratta di una patologia molto rara, caratterizzata dallo sviluppo anomalo dei vasi sanguigni e linfatici che causa progressiva distruzione dell’osso. Nel caso di Matteo, la miscela di liquido linfatico e minerali ossei aveva causato un versamento pleurico, il chilotorace, motivo dei suoi problemi respiratori.

Fortunatamente le cure che i medici avevano scelto per Matteo facevano effetto ed il chilotorace si era risolto. Il bambino, però, continuava a respirare male ed il suo cuore batteva veloce. Un giorno, venne intubato d’urgenza ed inviato in rianimazione, perché  il liquido era finito nel pericardio, la membrana che circonda il cuore.

I medici, affranti, proposero allora, in una riunione multidisciplinare, di tentare un trattamento sperimentale mirato alla causa della malattia, utilizzato solo per un altro bambino al mondo. Questo trattamento prevede intervento chirurgico, radioterapia e somministrazione di due farmaci: un anticoagulante e un potente antitumorale con proprietà antinfiammatorie, l’Interferone Alfa.

Il protocollo sperimentale salvò Matteo, ma, purtroppo, non lo guarì. Purtroppo per la Sindrome di Gorham-Stout non esistono cure definitive. Una speranza, tuttavia, pare esserci: si tratta di anticorpi monoclonali, tra cui il Bevacizumab, studiato e utilizzato in via sperimentale dalla Divisione di Ematologia dell’Università dell’Alabama. Questo anticorpo lavorerebbe per bloccare non solo il riassorbimento osseo, ma anche la crescita incontrollata dei vasi linfatici e sanguigni.

L’incontro

La mamma di Matteo, uscita dalla farmacia, tornò al bar e Adriana ne fu, per qualche motivo, felice:

– È la signora che entrata poco fa col bambino?

– Il bambino?

– Signora, circa mezz’ora fa era qui al bar in compagnia di un bambino… Dico bene?

– Poco fa ho fatto colazione qui, sì, ma ero da sola. Mio filglio oggi avrebbe compiuto quattro anni.

Era certo un Halloween molto, molto particolare. Adriana non l’avrebbe più dimenticato.

Questo racconto di medicina narrativa è stato pubblicato su Il Bugiardino, mensile di Medicina e Medical Humanities.

La musica è la mia vita

Flavia Celano, cantautrice, 25 anni.

  “La musica è la mia vita“ dice Flavia, studentessa al secondo anno al Saint Louis College of Music di Roma, dove vive. Tiene gli occhi socchiusi, teme la luce, ma ogni tanto ugualmente li spalanca, quando esprime il suo entusiasmo per l’arte e la vita. Flavia è nata con una degenerazione maculare congenita e la sua fortissima motivazione per la musica deriva anche dalla famiglia: anche suo papà ha una passione per il canto e i suoi nonni hanno cantato a livello amatoriale. La sua vita è stata accompagnata dalla musica sin da bambina: da molto presto si è costruita il proprio percorso, canta da quando aveva tre anni e studia musica da undici. Ha iniziato con il pianoforte, che le ha dato un’ottima base tecnica, poi però ha scoperto l’ukulele, ed è stato amore, non se ne separa mai. Con l’ukulele si è presentata ad Xfactor, quando aveva sedici anni, superando la prima prova.

Luci e ombre di una malattia rara: la Degenerazione maculare congenita

La vista di Flavia Celano è annebbiata, fatta di immagini deformate, con lampi luminosi e zone oscure. La degenerazione maculare è una malattia rara in età pediatrica, la parte interessata è la macula, ovvero la porzione centrale della retina, un tessuto che riveste quasi tutta la parete interna dell’occhio e permette la vista in particolare in condizioni di luce soffusa. Il rischio di degenerazione maculare è più frequente col progredire degli anni, ma purtroppo può presentarsi anche in età molto giovane. Flavia Celano ne è affetta dalla nascita, si tratta di una disabilità non indifferente che, probabilmente, l’ha portata a sviluppare talento e sensibilità, facendo convergere le sue energie nell’arte, ed in particolare nella scrittura di testi e musica. La sua malattia sembra, per fortuna, stabile e oggi lei ci convive con grande coraggio e prova a rileggerla anche attraverso la musica.

La cecità degli altri

Sin da bambina Flavia ha dovuto fare i conti con il profondo disagio, provocato dalla malattia, ma anche con la “cecità” dei compagni di scuola, che vedevano in lei una persona diversa, da deridere ed isolare. Difatti l’artista ci ha raccontato di aver subito atti di bullismo che l’hanno portata ad isolarsi per anni. Molte persone non vedono affatto la sofferenza provocata dalle malattie rare, vedono solo una diversità che dà fastidio. Nel mondo dell’arte invece la diversità è un privilegio, forse per questo Flavia vi si è sentita accolta e capita ed ha iniziato la sua rinascita e oggi fa quello che ama, e canta con l’ anima. Non canta soltanto, ma scrive musica e testi delle sue canzoni, perché ritiene la scrittura, insieme al canto, fondamentale per la propria espressione. “Scrivo perché vivo,” – afferma sul suo sito, – “scrivo perché è come congelare un’esperienza che non vuoi abbandonare. E canto per condividere il mio sentire più profondo con chiunque voglia accoglierlo“. Il suo brano “Versi di fiato“, nato durante il lockdown, è ora disponibile su Spotify. Grazie, Flavia, per ricordarci che il passo verso i territori dell’OLTRE può riservare sorprese straordinarie e che il salto in quei luoghi promette immensa luce. 

Proprio oggi, 30 ottobre, alle ore 18.50, Flavia parteciperà a L’Eredità, la nota trasmissione di Rai 1. Collegati ora!

Cerca Flavia su Facebook e Instagram: Instagram @flaviacelano_1

I pazienti con immunosoppressione sono a rischio di infezione prolungata da Covid. In diversi casi clinici, i ricercatori hanno individuato varianti di SARS-CoV-2 insorte nel corso di tali casi di malattia persistente. Addirittura nello stesso paziente sono state trovate tre delezioni delle sequenze genomiche e dodici mutazioni della proteina spike (Choi et al). In un altro paziente immunocompromesso, Kemp e colleghi hanno rilevato che le mutazioni del virus sono aumentate dopo che il paziente ha ricevuto un’infusione di plasma iperimmune.

Le varianti nei pazienti immunocompromessi 

La letteratura scientifica ha  descritto dunque molteplici casi di questo tipo, perlopiù riguardanti pazienti oncologici o immunodepressi a causa di terapie. Come si innesca questo processo?  Stando alle ricerche condotte, il virus muterebbe proprio perché in questi pazienti la quantità di anticorpi non è sufficiente a contrastarlo e, al contempo, l’infezione dura più a lungo. All’interno di un organismo che dispone di pochi anticorpi, infatti, il virus ha tempo e modo di conoscerli e, di conseguenza, modificarsi per evitarli. Infezioni di lunga durata non sarebbero, dunque, pericolose soltanto per il paziente, ma potrebbero addirittura alterare il corso della pandemia.

Alcune terapie possono provocare varianti

Il rischio di generazione delle varianti si riscontrerebbe anche nei pazienti che, contratta l’infezione da Covid, vengono curati con anticorpi monoclonali o plasma dei pazienti guariti. In alcuni casi, queste terapie, non riuscendo a contrastare il virus, lo “addestrerebbero” a fronteggiare gli anticorpi, mutando il suo corredo genetico. Questo meccanismo, va specificato, è risultato più frequente nei pazienti che hanno pochi anticorpi a causa di terapie immunosoppressive. Si aggiunga a quanto detto che gli anticorpi monoclonali, costruiti prendendo come bersaglio la proteina spike del virus originario, potrebbero avere una efficacia minore quando agiscono contro varianti virali che contengono mutazioni in questa proteina. Il plasma dei guariti, invece, permetterebbe al Coronavirus di “conoscere” gli anticorpi infusi e quindi modificarsi per evitarli. Quest’ultimo, dunque, oltre a non essersi mostrato efficace, potrebbe aver favorito lo sviluppo di varianti.

I vaccini non producono varianti

La buona notizia è, invece, che i vaccini non costituirebbero un rischio in questo senso. Non solo. Uno studio realizzato dall’Università del Maryland su 20 paesi (tra cui l’Italia) ha infatti dimostrato che all’aumentare del numero dei vaccinati corrisponderebbe la riduzione del numero delle varianti del virus. Di contro, maggiore è il numero delle persone infette, maggiore è la possibilità di sviluppo di varianti.

In sostanza, si può affermare che lo sviluppo di varianti virali, fenomeno nell’ordine naturale delle cose, è assolutamente più frequente nelle aree a maggiore circolazione del virus. Il vaccino è dunque ancora l’arma migliore che possediamo per combattere l’infezione da Covid-19. Ed è l’unica in grado di tutelarci anche rispetto alle innumerevoli mutazioni che potrebbero riguardare questo virus.

Dal 29 settembre al 2 ottobre, si è tenuto il 30° congresso dell’Accademia Europea di Dermatologia e Venereologia EADV.

All’evento ha partecipato anche la Dott.ssa Alessandra Scarabello, neopresidente del Comitato Scientifico ANPPI, con esperienza ventennale nelle malattie dermatologiche rare. Molti sono stati gli argomenti trattati e gli aggiornamenti forniti nel campo dermatologico. Per le malattie bollose autoimmuni, la Dott.ssa Scarabello ci ha gentilmente fornito una sintesi dei temi trattati e ha descritto gli aggiornamenti più salienti, come riportato di seguito.

 

Terapie innovative per Pemfigo Volgare e Foliaceo

Al congresso sono stati presentati i trial clinici, in fase 3, per le malattie bollose autoimmuni. Fra questi è stato descritto un importante studio prospettico che vede coinvolti 99 centri nel panorama mondiale. La ricerca si propone di valutare l’efficacia, la sicurezza e la tollerabilità di un farmaco biologico, chiamato Efgartigimod PH20, in pazienti adulti con pemfigo volgare o foliaceo. L’obiettivo principale dello studio è dimostrare l’efficacia della somministrazione sottocutanea del biologico Efgartigimod co-formulato con ialuronidasi umana ricombinante PH20 rispetto al placebo.

Lo studio su Efgartigimod sotto cute

Lo studio è partito a dicembre 2020 per gli arruolamenti, il completamento del periodo di trattamento è stimato per giugno 2022, il termine dello studio comprensivo del follow-up si prevede per agosto 2022. All’inizio del trattamento tutti i pazienti riceveranno una dose iniziale di prednisone pari a 0.5 mg/Kg/die (per almeno 8 settimane); al giorno 1 e 8 una iniezione sottocutanea di placebo/PH20 o efgartigimod/PH20 (a seconda del gruppo di appartenenza) alla dose di 2 mg, seguite da iniezioni settimanali da 1 mg fino alla remissione della malattia (tempo massimo di trattamento 30 settimane). Il follow up sarà di 8 settimane dalla fine del trattamento.

Covid 19 e Pemfigo

Da uno studio di 12 casi di pazienti con manifestazioni severe di pemfigo, necessitanti di una terapia corticosteroidea ad alte dosi (tra 60 e 140 mg/die), contagiati da Sars-Cov-2. Cinque casi hanno presentato una malattia Covid asintomatica, 4 casi con sintomatologia minima e solo 3 casi con sintomi severi, comunque con esito favorevole. I sintomi sono durati per un periodo da 6 a 14 giorni. La terapia steroidea ad alte dosi per il pemfigo non è mai stata sospesa e probabilmente ha rappresentato un fattore protettivo contro le forme severe di malattia COVID.

Pemfigo Foliaceo e Alopecia

Uno studio tunisino ipotizza che le desmogleine-1 siano importanti anche nel mantenimento dell’integrità del follicolo pilifero.

Rituximab come prima linea di trattamento nel Pemfigo Volgare

Recenti studi dimostrano come la scelta del Rituximab, come prima linea di trattamento nel PV, sia più sicura, riguardo alle complicanze infettive, rispetto al suo utilizzo dopo terapie con immunosoppressori.

100 trilioni di microbi nell’intestino materno

Diverse ricerche recenti hanno provato che la salute del feto è strettamente legata al microbioma dell’intestino materno. E’ ben noto che i microbi intestinali della madre influenzano la salute del bambino, sia nel corso della gravidanza, che successivamente. Un microbioma sregolato potrebbe, ad esempio, innescare un’infiammazione intestinale e produrre effetti importanti sulla crescita del feto. Circa 10-100 trilioni di microbi vivono in simbiosi nel corpo umano e ne influenzano la salute mentale e fisica.

Uno studio sul microbioma dell’intestino materno

A giugno di quest’anno la rivista EBioMedicine ha pubblicato uno studio di grande rilievo, firmato da Gough e colleghi, che mette in luce la relazione tra il microbioma fetale, quello della mamma e alcuni dati quali l’età gestazionale, il peso alla nascita e la crescita neonatale. La ricerca è stata condotta nello Zimbabwe rurale, ed ha rinvenuto che la presenza di alcuni microorganismi (Blastoscystis sp, Brachyspira sp Treponeme) è risultata in quantità superiore rispetto a quella dei paesi ricchi. Nello stesso ambito è emerso che il microbioma materno influenza il metabolismo della vitamina B, fondamentale per il buon funzionamento del sistema nervoso e delle relative funzioni psicologiche e comportamentali del bambino. 

Le conseguenze sullo sviluppo psicologico del feto

Dai numerosi studi sul tema, si è visto che una dieta ad alto contenuto di grassi saturi, riduce la presenza di Lactobacillus reuteri nell’intestino materno. La conseguenza è l’abbassamento dei livelli di ossitocina nell’ipotalamo del bimbo, con un’influenza negativa sul comportamento sociale. Questa relazione è stata messa in luce nel 2016 da Shelly Buffington e colleghe sulla prestigiosa rivista Cell.

Di contro, proprio in virtù di una diversa composizione del microbiota fecale materno, una dieta salutare potrebbe ridurre il rischio di difficoltà emotive e comportamentali nei bambini. Sebbene siano necessari studi ulteriori, questa ricerca può già permetterci di trarre alcune conclusioni di rilievo: ostetriche e nutrizioniste devono assolutamente informare le donne incinte sullo stile alimentare da seguire in gravidanza.

La trasmissione del microbioma materno

C’è anche un altro aspetto di grande interesse, anch’esso oggetto di studi recenti. Per lungo tempo si è creduto che il microbioma, di bimbi nati con parto cesareo, fosse diverso rispetto a quello di bimbi nati con parto naturale. Questo perché si riteneva che il microbioma del bambino venisse infuso di quello materno proprio nel passaggio attraverso il canale vaginale. In particolare, nei bimbi nati con cesareo, si era osservata una minore presenza di Bacteroides. A dicembre del 2020, Cell Reports Medicine ha pubblicato uno studio che in qualche modo mette in crisi questa vecchia teoria. Il pool di Caroline Mitchell ha scoperto che la trasmissione batterica che si verifica durante il parto naturale deriverebbe non dalla vagina della madre, ma dal suo retto.

La vecchia teoria vaginale è stata criticata anche da un altro studio, pubblicato a luglio di quest’anno su EBioMedicine e che mirava a ripristinare il microbioma intestinale nei bimbi nati con parto cesareo attraverso la somministrazione orale di microbi vaginali materni. Il dato emerso è che non si è osservata alcuna differenza nella composizione del microbioma di questi bimbi rispetto a quelli che hanno ricevuto placebo. Entrambi questi gruppi hanno mostrato bassi Bacteroides rispetto ai bimbi nati da parto naturale.

Il futuro del microbioma

Il microbioma umano è un ecosistema complicato che oggigiorno suscita il grandissimo interesse non solo degli scienziati, ma anche dei cultori della materia. I suoi meccanismi di azione sono innumerevoli e la maggior parte di essi ancora sconosciuti. Per certo, la questione riguarda la gravidanza da molto vicino. Ulteriori studi, però, saranno necessari per scoprire i miliardi di meccanismi segreti che legano l’uomo al grande universo del microbioma.

BB

Ritagliare i geni difettosi

Trovare ed eliminare i geni difettosi permetterà di curare malattie genetiche che oggi non hanno una risposta terapeutica adeguata. Presto sarà possibile grazie ad una tecnologia altamente innovativa chiamata CRISPR-Cas9. L’acronimo significa “Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats”, ovvero sequenze geniche che si ripetono a intervalli regolari. Il CRISPR si basa sulla combinazione di due elementi: un enzima in grado di ‘ritagliare’ i geni (detto Cas) e un RNA guida che si appaia al DNA per indicare all’enzima il punto in cui tagliare. Qualunque tipo di cellula vegetale, animale, inclusa quella umana, potrà essere modificata geneticamente.

I campi di applicazione

I campi di applicazione ex vivo, sull’uomo, sono già un fatto. Nel 2021, per la prima volta, gli scienziati hanno somministrato per via endovenosa una terapia basata su CRISPR nel corpo di sei persone affette da amiloidosi da accumulo di transtiretina con polineuropatia. Il trattamento ha ridotto significativamente i livelli della proteina TTR anomala che si accumula progressivamente nei tessuti danneggiandoli. I primi risultati dello studio sono stati pubblicati a fine giugno sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine.

Come funziona?

Lo strano nome del CRISPR deriva da un meccanismo immunitario che alcuni organismi unicellulari (come i batteri) utilizzano per difendersi dai virus. Questi organismi contengono dei frammenti di RNA-guida noti come CRISPR, che funzionano come delle sentinelle molecolari riconoscendo le sequenze di DNA estraneo. Una volta riconosciuto e agganciato il DNA estraneo, le CRISPR guidano su di esso un enzima detto Cas (CRISPR-associated) che, funzionando come un paio di forbici, taglia il DNA intruso, impedendone la replicazione.

Il Premio Nobel per la Chimica

La scoperta – cui già si lavorava dal 2012 – è valsa lo scorso anno il Premio Nobel per la Chimica a due donne. Emmanuelle Charpentier, Direttrice del Max Planck Unit for the Science of Pathogens a Berlino, e Jennifer A. Doudna, Professoressa all’University of California (Berkeley). La rivoluzionaria promessa di CRISPR/Cas9 è il trattamento di tutta una serie di patologie a base genetica per cui prima non era neppure possibile concepire un approccio terapeutico.

Possibili errori del CRISPR

Gli sviluppi di questo studio sono in continua evoluzione, ma è chiaro che non presenta solo  grandi benefici. Le potenzialità offerte da questa forbice molecolare, detta CRISPR, sono ad oggi frenate dagli errori di taglio – detti off-target, cioè fuori bersaglio – che avvengono sul genoma umano durante il suo utilizzo. Molti studi sono ancora necessari per portare un agente terapeutico come il CRISPR a colpire esclusivamente il suo bersaglio. Inutile dire che una partita importantissima è quella che si gioca a livello etico e che richiederebbe una discussione a parte per le importanti questioni che solleverebbe.

Malattie autoimmuni e vaccino

Chi soffre di malattie autoimmuni, dati alla mano, conta un numero di casi di Covid-19 (e decessi) significativamente superiore rispetto alla popolazione generale. Oltretutto, una percentuale significativa di pazienti con malattia autoimmune in terapia immunosoppressiva non ha risposto o ha risposto in maniera non soddisfacente ai cicli vaccinali. Non è ancora chiaro se ciò sia attribuibile alla malattia autoimmune, ai farmaci immunosoppressivi assunti per curarla, o a entrambi. La notizia arriva da uno studio condotto di recente negli Stati Uniti, dove Anthony Fauci, direttore dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive Americano (NIAID), si è dichiarato speranzoso per gli sviluppi futuri della vicenda: “Siamo determinati a trovare modi per suscitare una risposta immunitaria protettiva ai vaccini in questa popolazione. Questo nuovo studio è un passo importante in quella direzione”.

Valutare l’efficacia di una terza dose

L’istituto nazionale di salute degli Stati Uniti, alla luce dei dati raccolti, ha dunque avviato uno studio clinico per valutare, nelle persone con malattia autoimmune, la risposta anticorpale a una dose extra di vaccino COVID-19. Lo studio – recentissimo! – valuterà anche se la sospensione della terapia immunosoppressiva può essere in grado di migliorare la risposta anticorpale al vaccino in questa popolazione. 

Terza dose approvata per i trapiantati

Di certo c’è che somministrare una dose extra di vaccino COVID-19 migliori la risposta immunitaria di chi ha subito trapianti e assume farmaci immunosoppressivi. Lo studio del NIAID che indaga ulteriormente su questo è ancora in corso. Proprio i recenti risultati sulla popolazione dei trapiantati suggeriscono che una dose extra di vaccino COVID-19 potrebbe aiutare la risposta immunitaria di persone con malattie autoimmuni che assumono farmaci immunosoppressivi. A questo scopo, la Food and Drug Administration ha recentemente modificato le autorizzazioni per l’uso di emergenza dei vaccini COVID-19 di Pfizer-BioNTech e Moderna per questi soggetti.

Il nuovo trial include anche persone con Pemfigo, Sclerosi Multipla, Artrite reumatoide

Anticorpi umani al microscopio

Il nuovo trial del NIAID, chiamato COVID-19 Booster Vaccine in Autoimmune Disease Non-Responders, inizialmente includerà persone con una delle seguenti cinque malattie autoimmuni: sclerosi multipla, pemfigo, artrite reumatoide, lupus eritematoso sistemico o sclerosi sistemica. Le terapie immunosoppressive comunemente portate avanti dalle persone con queste malattie, infatti, sono state associate a scarse risposte immunitarie ai vaccini. Il team dello studio arruolerà circa 600 persone che hanno avuto una risposta anticorpale negativa o scarsa ai vaccini Moderna, Pfizer-BioNTech o Johnson & Johnson e somministrerà loro terapie immunosoppressive quali acido micofenolico, metotrexato o farmaci che riducono le cellule B.

Valutazione della risposta anticorpale 

Tutti i partecipanti riceveranno una dose extra del vaccino COVID-19 ricevuto in origine. Quindi, alcuni partecipanti continueranno ad assumere immunosoppressori; altri, invece, sospenderanno l’assunzione degli stessi nell’arco di tempo precedente e successivo alla dose di vaccino. Quattro settimane dopo aver ricevuto la dose extra di vaccino, i medici valuteranno la loro risposta anticorpale. I partecipanti allo studio saranno seguiti per un totale di 13 mesi e i risultati preliminari sono attesi per novembre 2021.


Carola Pulvirenti

Molte persone risultano carenti di Vitamina D e, pur assumendone alte dosi, non riescono a correggere questo problema. Uno studio pubblicato pochi giorni fa, spiegherebbe il motivo di questa condizione: alcuni individui hanno una resistenza alla vitamina D. Ce ne parla il Dottor Carlberg, professore di biochimica che, con i suoi colleghi dell’università della Finlandia orientale, ha individuato e analizzato alcuni biomarcatori utili per comprendere questo meccanismo. Il professore avrebbe dimostrato che l’assunzione vitamina D3 non è sempre in grado di esercitare gli effetti previsti, neanche aumentando la dose, perché vi è una variabilità da persona a persona.

Il 24% delle persone studiate non metabolizza bene la Vitamina D

I ricercatori hanno raggruppato i pazienti in base alla loro capacità di utilizzare la vitamina D3. Il 24% dei pazienti è risultato avere una bassa risposta all’integratore, il 51% una risposta media, ed il 25% una buona risposta. Questi dati hanno dato conferma che esiste uno spettro di diversa reattività alla vitamina D, con circa il 25% di popolazione che non risponde adeguatamente alle dosi convenzionali.

La resistenza ereditaria alla vitamina D

L‘idea della resistenza alla vitamina D è stata proposta per la prima volta nel 1937 da Albright, Butler e Bloomberg, sulla base dell’osservazione che, in rari casi di rachitismo nei bambini, erano necessarie dosi molto elevate di vitamina D. Gli individui resistenti alla vitamina D richiederebbero quindi dosi molto elevate della stessa, per ottenere una risposta fisiologica adeguata. Tuttavia la resistenza ereditaria alla vitamina D è molto rara.

La resistenza acquisita alla vitamina D

L‘ipotesi, studiata in questo articolo, riguarda una forma non ereditaria di resistenza alla vitamina D. Si tratta di una resistenza acquisita, che potrebbe promuovere lo sviluppo di malattie autoimmuni. Tale forma di resistenza si svilupperebbe durante l’invecchiamento, a causa di fattori genetici ma anche ambientali, pertanto sarebbe più comune di quella ereditaria. La resistenza acquisita alla Vitamina D3 sembra essere quindi legata ad un’ alterazione genetica, ma innescata da fattori ambientali come lo stress cronico, l’infezione dovuta ad un microrganismo patogeno, la bassa esposizione al sole, l’invecchiamento o l’inquinamento. Questi stessi fattori sono associati anche allo sviluppo di malattie autoimmuni.

Terapia della resistenza alla vitamina D

Attualmente non esistono terapie affidabili per correggere la resistenza alla vitamina D. L’unica strategia conosciuta è il protocollo Coimbra, che prevede la somministrazione di vitamina D ad alte dosi. L’efficacia del protocollo Coimbra non ha basi obiettive, tuttavia alcuni pazienti riferiscono un miglioramento dei sintomi. Questo approccio necessita inoltre di precauzioni comportamentali e non è esente da controindicazioni ed effetti collaterali, come ad esempio l‘ipercalcemia, una condizione in cui il livello di calcio nel sangue è superiore alla norma. Troppo calcio nel sangue può indebolire le ossa, creare calcoli renali, interferire con il funzionamento del cuore e del cervello e dare disturbi di varia natura. Si tratta quindi di una possibilità da non prendere alla leggera anche perché, purtroppo, non risolve il problema alla base. E’ auspicabile che, grazie all’innovazione tecnologica, si possa un giorno arrivare a disinnescare i meccanismi che provocano la resistenza alla vitamina D. Tuttavia è sempre possibile intervenire sui fattori di rischio modificabili, contrastando lo stress cronico e facendo lunghe passeggiate all’aria aperta.

Carola Pulvirenti

Leggi anche Luce solare, endorfine e altri effetti terapeutici

Leggi anche: Correlazione fra stress e malattie autoimmuni.

L’avvento dei social network, e l’incremento dell’utilizzo di internet da parte dei consumatori, ha rivoluzionato la comunicazione in sanità. Si tratta di una rivoluzione che parte dal basso: a cominciare dalle abitudini dei pazienti nell’approccio con la propria sintomatologia e la ricerca di possibili soluzioni. Si rende quindi necessario un cambiamento sostanziale delle modalità di comunicazione, soprattutto da parte degli operatori sanitari e farmaceutici. Hermes University, Università Popolare di Terza Missione, ha deciso quest’anno di investire in un corso di alta formazione dedicato a questo tema. Si tratta del primo corso italiano per Community Engagement Consultant in Health Assessment (CEC). Abbiamo intervistato il Dottor Giuseppe Tanga, Segretario Generale Hermes University, esperto di economia aziendale e Amministratore Delegato presso la CDG Law & Business, società di public affairs & lobbying.

La comunicazione nel nuovo millennio 

Dottor Giuseppe Tanga

Dottor Tanga, come descriverebbe i pazienti del nuovo millennio?

I pazienti sono divenuti proattivi nell’approccio alla salute, tanto da vagliare su internet le informazioni utili per poter scegliere a chi rivolgersi o quale prodotto utilizzare. Sono inoltre organizzati in community, più o meno strutturate.

E i professionisti della salute come sono cambiati?

Ugualmente i professionisti sanitari, gli ospedali, le istituzioni, le aziende sanitarie e farmaceutiche sono presenti a tutti gli effetti su più canali: social network, forum, blog, piattaforme specializzate. Tuttavia questa presenza non è sempre gestita al meglio: spesso ci si affida a società di comunicazione che non hanno competenze in ambito sanitario e questo crea delle criticità nella relazione con gli utenti.

Associazioni pazienti, gruppi e community

Una community è un gruppo di persone, legate da interessi comuni, che desidera influenzare aziende e istituzioni per soddisfare le proprie richieste. Spesso le community nascono in modo spontaneo e non contengono, al loro interno, professionisti in grado di comunicare con un linguaggio tecnico e adottare strategie efficaci. In ambito sanitario questo si ripercuote tanto sull’identificazione degli obiettivi, quanto sui tempi per il raggiungimento dei risultati.

Che valore hanno le community nel contesto farmaceutico e sanitario?

Le community rappresentano oggi un mezzo utile per incontrare utenti accomunati da un medesimo interesse, offrendo la possibilità di un confronto ed un aggiornamento costante. Tramite le community, infatti, è possibile monitorare continuamente le esigenze dei pazienti e dei consumatori calibrando costantemente l’offerta rispetto alle reazioni dei fruitori finali.”

In che modo le community di pazienti possono persuadere i loro interlocutori?

“Il Community Engagement Consultant è la risposta a questa domanda, un professionista formato per gestire il confronto che consente di oltrepassare la tradizionale relazione di cura. Se i professionisti del settore acquisiranno le competenze del Community Engagement Consultant, aziende farmaceutiche, le strutture sanitarie, e studi medici potranno ottimizzare il loro servizio, rendendolo maggiormente appropriato e personalizzato. Migliorando così la soddisfazione degli utenti e la reputazione dei loro brand.”

Community engagement e medicina partecipata

Dunque, se parliamo del contesto sanitario, il Community Engagement Consultant è un professionista con competenze scientifiche, che raccogliere informazioni e le condivide, creando consenso e facilitando la partecipazione dei cittadini ai processi di salute. Dalla ricerca e sviluppo del farmaco, fino ai protocolli di cura redatti dalle aziende sanitarie, il CEC si adopera per il coinvolgimento delle comunità di pazienti e operatori.

Nuova figura professionale poco conosciuta in Italia

Questa professione è già presente da alcuni anni nei principali Stati anglosassoni, e in tutto il mondo vi sono società che si occupano esclusivamente di community engagement consulting in ambito sanitario. Se la medicina partecipata è un processo già avviato in Italia, il Community Engagement Consultant è la figura necessaria per portare avanti questo processo presto e bene.”

Carola Pulvirenti