L’avvento dei social network, e l’incremento dell’utilizzo di internet da parte dei consumatori, ha rivoluzionato la comunicazione in sanità. Si tratta di una rivoluzione che parte dal basso: a cominciare dalle abitudini dei pazienti nell’approccio con la propria sintomatologia e la ricerca di possibili soluzioni. Si rende quindi necessario un cambiamento sostanziale delle modalità di comunicazione, soprattutto da parte degli operatori sanitari e farmaceutici. Hermes University, Università Popolare di Terza Missione, ha deciso quest’anno di investire in un corso di alta formazione dedicato a questo tema. Si tratta del primo corso italiano per Community Engagement Consultant in Health Assessment (CEC). Abbiamo intervistato il Dottor Giuseppe Tanga, Segretario Generale Hermes University, esperto di economia aziendale e Amministratore Delegato presso la CDG Law & Business, società di public affairs & lobbying.

La comunicazione nel nuovo millennio 

Dottor Giuseppe Tanga

Dottor Tanga, come descriverebbe i pazienti del nuovo millennio?

I pazienti sono divenuti proattivi nell’approccio alla salute, tanto da vagliare su internet le informazioni utili per poter scegliere a chi rivolgersi o quale prodotto utilizzare. Sono inoltre organizzati in community, più o meno strutturate.

E i professionisti della salute come sono cambiati?

Ugualmente i professionisti sanitari, gli ospedali, le istituzioni, le aziende sanitarie e farmaceutiche sono presenti a tutti gli effetti su più canali: social network, forum, blog, piattaforme specializzate. Tuttavia questa presenza non è sempre gestita al meglio: spesso ci si affida a società di comunicazione che non hanno competenze in ambito sanitario e questo crea delle criticità nella relazione con gli utenti.

Associazioni pazienti, gruppi e community

Una community è un gruppo di persone, legate da interessi comuni, che desidera influenzare aziende e istituzioni per soddisfare le proprie richieste. Spesso le community nascono in modo spontaneo e non contengono, al loro interno, professionisti in grado di comunicare con un linguaggio tecnico e adottare strategie efficaci. In ambito sanitario questo si ripercuote tanto sull’identificazione degli obiettivi, quanto sui tempi per il raggiungimento dei risultati.

Che valore hanno le community nel contesto farmaceutico e sanitario?

Le community rappresentano oggi un mezzo utile per incontrare utenti accomunati da un medesimo interesse, offrendo la possibilità di un confronto ed un aggiornamento costante. Tramite le community, infatti, è possibile monitorare continuamente le esigenze dei pazienti e dei consumatori calibrando costantemente l’offerta rispetto alle reazioni dei fruitori finali.”

In che modo le community di pazienti possono persuadere i loro interlocutori?

“Il Community Engagement Consultant è la risposta a questa domanda, un professionista formato per gestire il confronto che consente di oltrepassare la tradizionale relazione di cura. Se i professionisti del settore acquisiranno le competenze del Community Engagement Consultant, aziende farmaceutiche, le strutture sanitarie, e studi medici potranno ottimizzare il loro servizio, rendendolo maggiormente appropriato e personalizzato. Migliorando così la soddisfazione degli utenti e la reputazione dei loro brand.”

Community engagement e medicina partecipata

Dunque, se parliamo del contesto sanitario, il Community Engagement Consultant è un professionista con competenze scientifiche, che raccogliere informazioni e le condivide, creando consenso e facilitando la partecipazione dei cittadini ai processi di salute. Dalla ricerca e sviluppo del farmaco, fino ai protocolli di cura redatti dalle aziende sanitarie, il CEC si adopera per il coinvolgimento delle comunità di pazienti e operatori.

Nuova figura professionale poco conosciuta in Italia

Questa professione è già presente da alcuni anni nei principali Stati anglosassoni, e in tutto il mondo vi sono società che si occupano esclusivamente di community engagement consulting in ambito sanitario. Se la medicina partecipata è un processo già avviato in Italia, il Community Engagement Consultant è la figura necessaria per portare avanti questo processo presto e bene.”

Carola Pulvirenti

Il consumo di una dieta ricca di grassi è in grado di innescare l’obesità, con una serie di disordini metabolici che possono peggiorare il decorso di numerose malattie, compresa la Covid.

Dimagrire mangiando

I ricercatori dell’Università della California hanno identificato una molecola che sarebbe in grado di contrastare l’obesità, permettendo di dimagrire mangiando. L’esperimento è stato condotto su alcuni esemplari di topo obeso. La molecola, uno sfingolipide sintetico chiamato Sh-bc-893, è stata somministrata ai topi continuando ad alimentarli con cibi grassi. Il risultato è stato non solo che il loro peso è sceso incredibilmente, ma addirittura è aumentata la loro tolleranza al glucosio. E, fatto ancora più interessante, si è ridotto l’accumulo di grasso nel loro fegato nonostante si continuasse ad alimentarli con cibi ricchi di grassi.

Perché ingrassiamo

Com’è ben noto, nella maggior parte dei casi, si diviene obesi mangiando quantità di cibo superiori all’energia che che si consuma con il movimento. Oltre alle quantità del cibo, incide anche la  composizione: gli alimenti ricchi di grasso possono danneggiare l’organismo su vari fronti. Seppure alcuni grassi, nelle giuste quantità, sono necessari per la sopravvivenza, quando ne consumiamo quantità eccessive, nel nostro organismo si innescano processi patologici fra i quali l’aumento di peso è solo la punta di un iceberg. I meccanismi biologici che ci portano ad ingrassare sono molteplici, fra questi vi è un’eccessiva fissione dei mitocondri all’interno delle cellule. Si tratta di un processo, causato dai grassi in eccesso, che innesca una  disfunzione metabolica.

In che modo la molecola contrasta l’obesità

La scoperta, pubblicata in questi giorni su una rivista di medicina molecolare, è che lo sfingolipide sintetico è in grado di contrastare una delle disfunzioni metaboliche che causano l’obesità: l’ eccessiva fissione dei mitocondri. Difatti i ricercatori hanno osservato che i topi, ai quali veniva somministrato lo sfingolipide Sh-bc-893, iniziavano a perdere peso pur continuando a mangiare cibi grassi. Ancora non è chiaro il meccanismo completo che porta a questo incredibile risultato. L’ipotesi più ovvia è che il trattamento operi sui neuroni dell’ipotalamo che controllano il metabolismo. Per ora sappiamo che i ricercatori sono riusciti a rimodellare i mitocondri compromessi nel fegato, nel cervello e nel tessuto adiposo bianco, e a normalizzare quindi i livelli circolanti di alcuni ormoni metabolici come la leptina e l’adiponectina. Questa scoperta sensazionale merita di essere diffusa. La ricerca non si ferma, per fortuna, nonostante i tempi difficili.

Carola Pulvirenti

L’inquinamento agisce sulla nostra salute?

Difficile immaginare il collegamento diretto fra la nostra salute e quella del pianeta. Difficile modificare il nostro comportamento finché stiamo bene. Tuttavia c’è un ampia branca della medicina che si occupa di prevenzione delle malattie e il tema dell’ecologia ne è parte integrante. Quali malattie possiamo prevenire attraverso consapevolezza e responsabilità? Lo vediamo attraverso un articolo recentemente pubblicato sul Lancet, prestigiosa rivista scientifica inglese.

Le conseguenze sul cibo

Per cominciare, l’attività umana incide fortemente sul sistema di produzione del cibo. Da tempo molti ortaggi risultano poveri di minerali come ferro, zinco e proteine, la causa risiede negli alti livelli di anidride carbonica prodotta dalla nostra automobile. Ci ritroviamo così a dover assumere pasticche di integratori perché abbiamo rovinato il cibo che li conteneva.

Secondo il rapporto della Commissione Lancet su inquinamento e salute, l’inquinamento ha causato il 21% delle morti di malattie cardiache, il 23% dei decessi per ictus, l’8% dei morti per malattia polmonare cronica ostruttiva e il 25% dei decessi per cancro ai polmoni. La causa? La riduzione del consumo di nutrienti che proteggono da queste malattie. Se continueremo ad impoverire ortaggi e bestiame, non ci saranno integratori che potranno salvarci.

La scomparsa degli insetti impollinatori

Un’altra drammatica conseguenza, delle accresciute emissioni di anidride carbonica, è la scomparsa degli insetti impollinatori, protagonisti indiscussi di ogni ecosistema. La loro sparizione, infatti, accrescerebbe il numero di malattie legate alla ridotta assunzione di vitamina A, folati e gruppi di alimenti come frutta e verdure. 

Tutto questo dicasi per non menzionare le conseguenze, per la salute dell’uomo, dei crescenti livelli di ozono, della scarsità d’acqua, della riduzione dei terreni coltivabili, della minaccia alla biodiversità marina etc.

Le conseguenze sulle malattie infettive

Le temperature in aumento, le precipitazioni eccessive, le deforestazioni, potrebbero avere un impatto tragico anche sull’esposizione umana alle malattie infettive. Dati scientifici già attestano che il rischio di contrarre patologie di questo tipo aumenta in modo significativo in suddette condizioni. Si consideri ad esempio un agricoltore nelle zone montuose del Belize che applica fertilizzanti sui suoi campi. Il contadino provoca il deflusso di azoto e fosforo nei torrenti locali. Questi nutrienti sono poi trasportati centinaia di miglia a valle, verso la pianura del Belize, dove contribuiscono a innescare un cambiamento nel tipo di vegetazione. Questo cambiamento crea un habitat ideale per un tipo di zanzara in grado di trasmettere la malaria agli esseri umani. Vi viene in mente un altro esempio? Si: il Coronavirus ed altre malattie zoonotiche come l’HIV e l’Ebola. L’invasione umana, nell’habitat della fauna selvatica, aumenta il rischio di malattie come queste.

Ridurre la vulnerabilità è cruciale

La cooperazione e la condivisione dei problemi e delle relative soluzioni rappresentano, per l’umanità, l’unico futuro possibile. Oggi è impossibile pensare che una malattia, che si sta diffondendo a migliaia di chilometri da casa mia, non è un mio problema. Una popolazione martoriata dalle catastrofi naturali, rappresenta un problema per la salute globale. Pensiamo ad esempio alto rischio di contrarre e diffondere malattie infettive, come avvenuto ad Haiti con il colera. E’ evidente che proteggere le popolazioni più vulnerabili non è solo filantropia ma una necessaria tutela della salute globale.

Carola Pulvirenti

Per chi è prevista la terza dose vaccinale

“Il paese è entrato in un’altra ondata della pandemia di COVID-19, e la FDA è consapevole che le persone immunocompromesse sono particolarmente a rischio di malattie gravi. Dopo una revisione approfondita dei dati disponibili, la FDA ha determinato che questo piccolo gruppo vulnerabile può beneficiare di una terza dose dei vaccini Pfizer-BioNTech o Moderna” Lo ha recentemente affermato il commissario ad interim del ente regolatorio statunitense. Negli Stati Uniti è stato dunque autorizzato l’uso di una terza dose vaccinale negli individui immunocompromessi, come i trapiantati o coloro che seguono terapie immunosoppressive che determinano una compromissione del sistema immunitario simile a quella dei trapiantati.

Gli immunocompromessi sono più a rischio

Chi ha una grave compromissione del sistema immunitario risulta avere una ridotta capacità di combattere le infezioni e altre malattie, ed è particolarmente vulnerabile alle infezioni, compresa la COVID-19. La notizia riguarda le persone che sono immunocompromesse in modo simile a quelle che hanno subito un trapianto di organi solidi. Difatti non tutti gli individui che assumono farmaci immunosoppressori risultano  immunocompromessi. La compromissione del sistema immunitario varia in base a numerosi fattori come la tipologia, il dosaggio e la durata della terapia immunosoppressiva.

La FDA ha valutato le informazioni sull’uso di una terza dose dei vaccini Pfizer-BioNTech o Moderna, negli individui con una marcata compromissione del sistema immunitario, e ha determinato che la somministrazione di terze dosi di vaccino può aumentare la protezione in questa popolazione.

A questi pazienti occorre inoltre consigliare di mantenere le precauzioni fisiche per aiutare a prevenire la COVID-19. Inoltre, i contatti stretti di persone immunocompromesse dovrebbero essere vaccinati, se non vi sono controindicazioni specifiche, per fornire una maggiore protezione ai loro cari.

Consigliati anche gli anticorpi monoclonali

Quando una persona immunocompromessa contrae la Covid-19, l’indicazione della FDA è quella di valutare la possibilità di trattamento con anticorpi monoclonali. La FDA ha autorizzato trattamenti con anticorpi monoclonali per l’uso di emergenza per adulti e pazienti pediatrici positivi al Sars-Cov-2 e che sono ad alto rischio di progredire verso la malattia grave grave e/o l’ospedalizzazione. Gli anticorpi monoclonali sono molecole prodotte in laboratorio che agiscono come anticorpi sostitutivi. Possono aiutare il nostro sistema immunitario a riconoscere e rispondere più efficacemente al virus, rendendo più difficile per il virus riprodursi e causare danni.

Terza dose per immunocompromessi dai 12 anni in su

Il vaccino Pfizer-BioNTech è attualmente autorizzato per l’uso di emergenza in individui di età pari o superiore ai 12 anni, e il vaccino Moderna è autorizzato per l’uso di emergenza in individui di età pari o superiore ai 18 anni. Le autorizzazioni per questi vaccini sono state modificate per consentire la somministrazione di una terza dose a soggetti di età pari o superiore a 18 anni per Moderna e 12 anni per Pfizer che hanno subito un trapianto di organi solidi, o a cui sono state diagnosticate condizioni che sono considerate avere un livello equivalente di immunocompromissione. La somministrazione deve avvenire almeno 28 giorni dopo il regime a due dosi dello stesso vaccino.

Il Comitato consultivo sulle pratiche d’immunizzazione dell’organismo americano di sanità pubblica (CDC) si riunirà questo venerdì per discutere ulteriori raccomandazioni cliniche riguardanti gli individui immunocompromessi. Attendiamo nota ufficiale del ente regolatorio italiano (AIFA) che ha anticipato la notizia alcune settimane fa.

Carola Pulvirenti

Il potere antivirale degli oli essenziali

Potrebbe suonare come l’ennesima fake news, eppure recenti studi scientifici attestano che gli oli essenziali  sarebbero in grado di agire non solo contro una vasta gamma di batteri e funghi, ma anche contro patogeni virali, inclusi quelli di varie influenze e – udite udite! – dei coronavirus. Lo annuncia un articolo scientifico scritto dai ricercatori di un’università indiana e pubblicato pochi mesi.

Esperimenti su lavanda, cannella e citronella

Gli oli essenziali di cannella, bergamotto, citronella, timo, lavanda, per esempio, eserciterebbero un potentissimo effetto antivirale contro l’influenza di tipo A. Quelli di foglie di agrumi sarebbero, invece, efficaci contro il virus H5N1. O ancora, in certe concentrazioni, l’olio essenziale di Lippia indurrebbe una remissione del 100% del virus della febbre gialla. Addirittura, gli oli di timo, citronella e rosmarimo officinale destabilizzerebbero il complesso Tat/TAR-RNA del virus HIV-1, complesso fondamentale per la duplicazione dello stesso virus.

Gli oli contro le sindromi acute da SARS-CoV

Ancora più incredibile il dato che ben 221 elementi, tra i composti fitochimici e gli oli essenziali testati, avrebbero un effetto antivirale notevole contro le sindromi respiratorie acute associate al virus SARS-CoV. L’esperimento, effettuato anche sui polli, ha mostrato non solo una significativa riduzione dei sintomi e delle lesioni cliniche, ma anche della quantità di RNA virale nella trachea degli uccelli. Non solo, negli animali testati, risultati protetti per quattro giorni dal virus dopo la somministrazione degli oli, è risultata ridotta per ben due settimane persino la trasmissione dell’infezione.


Il meccanismo di azione degli oli

La tempesta di citochine (dalla rivista Nature)

Ma come funzionano queste sostanze? In che modo agiscono nel virus? Lipofili per natura, questi oli penetrano facilmente le membrane virali e così provocano la disintegrazione del capside, l’involucro proteico della particelle virali. In questo modo, essi impediscono al virus di infettare la cellula ospite come avviene di solito attraverso l’adsorbimento via capside. Non solo, gli oli sopprimono le tempeste citochiniche generate durante le infezioni da SARS-CoV-2 e quindi inibiscono l’infiammazione alveolare. É in questo modo che essi riducono i sintomi letali della malattia e la riposta infiammatoria delle cellule.

Prospettive future

 La letteratura scientifica sul tema è più vasta di quello che si possa pensare e  indica che gli oli essenziali possono considerarsi di grande beneficio contro il COVID-19. Sarebbe molto utile svolgere ulteriori ricerche sull’argomento, soprattutto visto che il mondo intero è ancora in balia di questo virus e delle sue varianti. Si tratta di una possibilità da esplorare con grandissima attenzione, e non solo per gli esiti già espressi negli esperimenti condotti. Ma perché gli stessi hanno portato alla luce il potenziale incredibile di elementi assolutamente e totalmente naturali.

BB

La storia inizia quando il nostro primo figlio aveva circa 7 mesi. Un venerdì sera abbiamo notato che il piedino sinistro era rosso, nella sua parte esterna. Questo arrossamento è stato in seguito definito come ‘vasculite’. Dopo un paio d’ore, in prossimità del mignolo del piede sinistro, sono comparse tre bolle, di cui una grossa e le altre di dimensioni minori.

L’attesa per la diagnosi

Lo abbiamo pertanto portato in ospedale dove inizialmente ci hanno diagnosticato una generica dermatite bollosa (nostro figlio ha anche la dermatite atopica in forma media, non seria). A quel punto abbiamo deciso di portarlo da una specialista in malattie della pelle in età pediatrica, la quale ci ha diagnosticato il Pemfigoide Bolloso, una reazione della pelle dovuta alla vaccinazione. Circa un mese e mezzo prima della comparsa delle bolle, il bambino aveva sostenuto una delle vaccinazioni del primo anno.

Pemfigoide Bolloso

Inizialmente il medico non ci dette alcuna spiegazione di cosa fosse il Pemfigoide Bolloso, solo a casa, approfondendo, abbiamo conosciuto la realtà di questa malattia. Non avevamo idea fosse una malattia autoimmune. Lo associavamo solo ad una reazione da vaccinazione.
Per questo mi sono subito messa in contatto con l’Associazione Nazionale Pemfigo Pemfigoide Italy,  nelle persone di Giuseppe e Carola che ci hanno supportato con informazioni, accogliendo le nostre paure, standoci vicino nel modo più generoso che potesse esserci. Nelle visite, che si sono susseguite, ci è stato detto che il Pemfigoide Bolloso da vaccinazione, negli infanti, generalmente comporta una sola manifestazione, oppure dalle due alle tre, le ultime delle quali di intensità più lieve rispetto alla prima manifestazione e tende a non manifestarsi più.

Certamente sappiamo che nostro figlio è probabilmente un soggetto geneticamente predisposto, e questo fa di noi dei genitori che non abbasseranno mai la guardia su questa malattia. Una condizione che necessita di essere prima conosciuta e poi supportata.

Ringraziamo l’associazione con tutto il nostro cuore.

 

Persone con malattie rare, disabili e fragili intervistati dal Istituto Superiore di Sanità

Disabili e malati rari hanno grande bisogno dello sviluppo di tecnologie a loro sostegno. Tuttavia molti di essi hanno difficoltà nell’accesso a strumenti digitali e innovativi. Per programmare interventi su comunicazione e assistenza digitale, è necessario capire quali sono le reali criticità in questo ambito. Per questo il Centro Nazionale Tecnologie Innovative in Sanità Pubblica ha avviato una raccolta dati, in collaborazione con il Centro Nazionale Malattie Rare dell’Istituto Superiore di Sanità. Il contesto, in cui è stata condotta l’indagine, era quello della situazione pandemica (da settembre a novembre 2020), che ha costretto la popolazione intera all’isolamento domiciliare e al distanziamento fisico e sociale.

Capire per programmare gli interventi

Nel momento in cui si pensa di aiutare le persone disabili o con malattie rare, il primo passo è quello di dare loro ascolto. Difatti qualunque progetto di salute e assistenza, parte da un’analisi del contesto nel quale si vuole intervenire. Per questo motivo, l’Istituto Superiore di Sanità ha proposto un sondaggio elettronico alle persone con malattie rare e disabilità di vario tipo. Gli obiettivi dell’indagine erano i seguenti:

  • Verificare il concreto utilizzo delle tecnologie, ad oggi disponibili, a supporto delle persone fragili nella loro vita quotidiana.
  • Rilevare la reale accessibilità e fruibilità delle tecnologie da parte delle “persone fragili”, e dei loro caregiver, evidenziandone le carenze e le difficoltà di utilizzo.
  • Individuare e suggerire possibili soluzioni e azioni, utili a migliorare la qualità della vita nella fase post emergenziale.

Saper utilizzare la tecnologia

L’indagine ha permesso di comprendere le principali problematiche riscontrate, nell’ ambito comunicazione e digitale, dai cittadini fragili e dalle loro famiglie. Fra queste vi è senza dubbio una generale difficoltà nell’ utilizzo e/o nell’ accesso alle tecnologie specialistiche per cura o riabilitazione. I pazienti riferiscono di ricevere scarso supporto informatico da remoto, con criticità per la continuità assistenziale. Difatti è emerso che,  in molti casi, gli strumenti tecnologici, forniti in dotazione a domicilio, non sono stati facilmente fruibili o adeguati alle esigenze. E questo ha causato, in oltre la metà dei soggetti rispondenti, un aggravamento delle condizioni di salute (55%). Inoltre, solo il 23,7% dei caregiver o familiari si è avvalso di App per la vigilanza sanitaria e farmacologica.

La formazione è indispensabile

E’ emerso quindi un forte desiderio di ricevere la formazione adeguata per accedere alle tecnologie e utilizzarle in modo appropriato. Difatti solo il 9,29 % dei rispondenti al questionario ha usufruito di tecnologie di riabilitazione e/o di supporto terapeutico in remoto, e di questi il 31 % ha riscontrato problemi e difficoltà nell’utilizzo effettivo dello strumento. Eppure il 56%, di quelli che non ne hanno avuto possibilità, ha espresso un forte desiderio di poter accedere a strumenti di supporto digitale. Tali strumenti hanno infatti rappresentato un salvagente che ha tutelato i disabili durante il primo anno di emergenza sanitaria.

Quali priorità per comunicazione e assistenza digitale

Da questi dati preliminari, si evince dunque la necessità di implementare piattaforme e strumenti tecnologici innovativi, ma anche di prevedere percorsi formativi a professionisti, alle persone fragili e ai loro familiari/caregiver. E’ necessario inoltre garantire servizi di supporto informatico costante ed un monitoraggio della salute generale, incluso il benessere psicologico di tutta la famiglia. Difatti la presenza in famiglia di una persona non autosufficiente necessita di sostegno e organizzazione, necessari per evitare e diagnosticare precocemente i frequenti casi di burnout dei familiari e caregiver. Nel sondaggio citato è emersa, in modo chiaro, la volontà di pazienti e caregiver di essere coinvolti e formati sulle nuove tecnologie, che rappresentano un grande potenziale per migliorare la qualità di vita non solo della persona fragile, ma di tutta la famiglia.

Carola Pulvirenti