Malattie autoimmuni, quali cause

Che l’eziologia delle malattie autoimmuni sia multifattoriale è ormai un dato comprovato dalla comunità scientifica. Fattori genetici, ambientali, ormonali, immunologici incidono in modo significativo nella genesi di queste patologie. Alcuni di essi persino più comunemente di altri. Tuttavia sono numerosi i pazienti i quali ritengono che, a provocare la propria malattia autoimmune, sia stato un preciso evento traumatico. Lo stress fisico e psicologico, infatti, è un fattore fortemente implicato nello sviluppo delle malattie autoimmuni. Molti studi retrospettivi hanno attestato che un’alta percentuale di pazienti (fino all’80%) riferiva di stress emotivo non comune prima dell’insorgenza della malattia.

Ormoni e sistema immunitario

Ma perché lo stress è così strettamente legato a queste patologie? Si presume che la disregolazione immunitaria sia provocata dagli ormoni neuroendocrini innescati dallo stress. L’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) è il coordinatore centrale dei sistemi di risposta allo stress. Dopo l’esposizione ad un evento stressante, i neuroni dell’ipotalamo secernono ormoni che stimolano l’ipofisi, ghiandola che rilascia sostanze stimolanti le ghiandole surrenali. Le surrenali rilasciano sostanze glucocorticoidi che modificano il metabolismo, così come la funzione immunitaria e il cervello, coordinando in tal modo la risposta allo stress. In che modo quindi ciò si ripercuote sul sistema immunitario? Tali ormoni rilasciati dal HPA risultano amplificare la produzione di citochine, mediatori che della comunicazione fra le cellule del sistema immunitario e fra queste e diversi organi e tessuti. I trasmettitori che si attivano in questi casi provocherebbero, quindi, infiammazione e danno tissutale.

La risposta ad un evento traumatico

Della parola “stress” s’è abusato fin troppo. Il termine è stato semplificato, travisato, svilito. Intorno a questo concetto, invece, ci sono stati studi interessantissimi. Fu Hans Selye, un medico austriaco, il primo a descrivere, nel Novecento, il sistema ipotalamo-ipofisi-surrene, quello con cui il corpo affronta lo stress.

Vale la pena precisare che lo stress è niente altro che la risposta dell’organismo ad uno stimolo ambientale, ad esempio un evento traumatico; è, invece, la difficoltà di adattarsi ad eventi negativi ciò che diventa problematico. Ad avere  maggiori probabilità di ammalarsi, mentalmente o fisicamente, è proprio, infatti, chi vive il cosiddetto “distress”. Ed è questa difficoltà ad incidere sul sistema immunitario, ad abbassare le difese dell’organismo e diminuire la capacità di guarigione dei tessuti corporei.

Terapia comportamentale

Se dunque un evento traumatico potrebbe provocare una malattia autoimmune, allora è necessario che il trattamento di queste malattie includa la gestione dello stress e l’intervento comportamentale con il supporto di uno psicoterapeuta. Nonostante l’accordo della comunità scientifica su questo tema, c’è molto poco lavoro di ricerca clinica e scarsa attenzione a questo aspetto. Nuove discipline – prima fra tutte la neuroendocrinoimmunologia – mirano oggi a comprendere meglio il ruolo dello stress nello sviluppo di queste malattie e, insieme, a sviluppare un trattamento migliore per le stesse. La gestione del peso, dunque una dieta appropriata, e la vita in un ambiente domestico sano, sono fattori importantissimi per prevenire le infiammazioni e rallentare la loro progressione. Se è vero che non possiamo modificare alcuno dei nostri fattori genetici ed ereditari, è altrettanto vero, però, che possiamo agire sul nostro stile di vita.

Tecniche di gestione dello stress

Lo stress è, dunque, un fattore di rischio. Per cambiare qualcosa, è fondamentale imparare a sviluppare tecniche efficaci per gestirlo. Diverse malattie autoimmuni, come Pemfigo e Fibromialgia, potrebbero essere tenute sotto controllo attraverso un programma di gestione dello stress. Lo psicoterapeuta è lo specialista in grado di insegnare alle persone tecniche adeguate per affrontare e prevenire lo stress.  La maggior parte dei dermatologi ritiene che i problemi psicologici siano frequenti tra i soggetti che vengono alla loro attenzione: numerosi studi su pazienti dermatologici hanno infatti rivelato che, già prima della diagnosi di malattia dermatologica, queste persone soffrivano di disturbi psicologici. In particolare, dalla letteratura disponibile, emerge una chiara correlazione fra stress emotivo e Pemfigo.

Il ruolo esatto dello stress nella patogenesi delle malattie autoimmuni, a tal proposito, dovrebbe essere chiarito da studi prospettici con un focus sia clinico che immunoserologico. Non solo: le reazioni allo stress dovrebbero essere discusse in modo approfondito con i pazienti attraverso questionari mirati sui fattori scatenanti e sintomi. Il paziente e la sua storia è ciò da cui parte tutto: il sintomo è l’espressione del suo mondo interiore e la medicina non può assolutamente lasciarlo fuori.

Carola Pulvirenti

La mia prima volta

La prima volta che ho avuto a che fare con una malattia rara e che ho manifestato il mio interesse per quel mondo, sembrava non ci fosse speranza per un futuro migliore. Mi sono ritrovata bersagliata da reazioni sfiduciate: “Rassegnati!”, qualcuno diceva, “si tratta di una malattia rara, non ci sono cure”; o ancora: “Nessuna casa farmaceutica investirà risorse per curare pochi pazienti”. Da infermiera del Servizio Sanitario Pubblico, però, io ero sicura che per le persone affette da malattie rare, invece, si facesse tanto. Quattro anni dopo, entrata nel mondo dell’advocacy, ho potuto constatare che avevo ragione: in Italia ci sono degli ottimi centri di cura per le malattie rare; il parlamento italiano ha un gruppo di lavoro dedicato al tema e quello europeo promuove e finanzia studi per le persone affette da queste malattie.

Rare 2030: l’impegno dell’ Europa

“La comunità delle persone con malattie rare, ed i loro caregivers, meritano la nostra ammirazione,​ ma l’ammirazione non è sufficiente.” Lo afferma Robert Madelin, consulente per la ricerca nel progetto Rare 2030 . Rare 2030 è uno studio che guiderà le iniziative politiche, sulle malattie rare in Europa, per i prossimi dieci anni e oltre, per garantire un futuro migliore. Duecento esperti e migliaia di pazienti si sono riuniti per prendere importanti decisioni in merito e, attraverso un lavoro durato circa due anni, hanno individuato otto fondamentali priorità che offrono indicazioni per il supporto alle persone con malattie rare. “La salute di 30 milioni di persone, che vivono con una malattia rara in Europa, non dovrebbe essere lasciata alla fortuna o al caso.”  afferma il Dottor Madelin, per questo il progetto Rare 2030 impegna pazienti e professionisti alla ricerca di soluzioni efficaci e condivise.

Otto priorità per le malattie rare

Fra le priorità, individuate grazie al lavoro di cittadini, sanitari e amministratori, vi è lo stanziamento di fondi per garantire la giustizia sociale, ovvero l’eguaglianza del diritto alle cure. Nonché la promozione di politiche che riguardano diagnosi più rapide e più accurate. Una cura focalizzata sulla persona, non soltanto sulla malattia. Dei trattamenti che prevedano un maggiore coinvolgimento del paziente, con la sua storia e la sua quotidianità. Inoltre si lavora per promuovere investimenti nella ricerca di trattamenti che siano economicamente più gestibili, difatti spesso le persone con malattie rare devono sostenere ingenti spese per recarsi nei centri di cura ed acquistare farmaci e presidi. Infine si è dato risalto alla necessita di ottimizzare la raccolta e l’elaborazione dei dati, elemento fondamentale per poter adottare scelte politiche appropriate.

Gli scenari per il futuro

Di quattro possibili scenari futuri (vedi tabella), proposti dallo studio Rare 2030, la comunità di malati rari ha identificato lo scenario numero uno come il preferito: “Investimenti per la Giustizia Sociale”. In esso vi sono tre fattori cruciali: l’innovazione, guidata dal paziente e dai suoi bisogni insoddisfatti e non da un ritorno economico; la responsabilità della collettività nei confronti di questa popolazione vulnerabile; e gli obiettivi calibrati sui risultati raggiunti, sia rispetto alle diagnosi, che rispetto ai trattamenti e all’accessibilità delle cure. I progetti per il futuro prossimo dei malati rari sembrano essere davvero promettenti. La speranza è che tali iniziative siano sostenute dalle politiche, accolti nelle comunità, e, prima di tutto, compresi in profondità da chi vive in prima persone queste malattie. Dovremo lavorare insieme per questo futuro. Intanto, grazie a Rare 2030 per questo enorme passo in avanti!

 Carola Pulvirenti

Rare 2030: lo scenario futuro

Paura del diverso, l’omofobia

Ricorre oggi, 17 maggio, la diciassettesima Giornata Internazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la transfobia e la bifobia. Quest’anno ci saranno tanti eventi e webinar finalizzati a sensibilizzare l’opinione pubblica e prevenire la discriminazione contro chi  si tiene per mano o bacia una persona dello stesso sesso. Sono ancora troppe le persone che temono chi è diverso da loro, spesso però questo disagio si tramuta in atteggiamenti discriminatori, che producono una profonda sofferenza in chi li subisce.

La sofferenza di chi è diverso

Omosessuali e transgender devono già affrontare un percorso personale di accettazione di se’, come qualunque persona che, per i più svariati motivi, si accorge di essere “fuori dal comune”; questo percorso è tutt’altro che semplice e talvolta necessita del supporto di uno psicoterapeuta. L’isolamento sociale ma soprattutto familiare non fa che peggiorare la serenità di minori e adolescenti LGBTI. Di questo tema abbiamo parlato con il Dottor Manlio Converti, psichiatra presso la Asl Napoli 2 nord, fondatore e presidente dell’Associazione Medici e Personale Sanitario LGBTI o Gayfriendly AMIGAY.  Fra le finalità dell’associazione vi è quella di ottenere la Completa Depatologizzazione dell’Omosessualità e Depsichiatrizzazione dell’Identità di Genere in Italia, nonchè il contrasto attivo all’Omofobia Sanitaria. 

Cos’è l’omofobia

Dottor Converti, come possiamo definire l’omofobia? “A chi si chiede cosa sia l’omofobia, andrebbe risposto che è niente altro che un reato e che, in quanto tale, va assolutamente scoraggiato”. Rimbalza a più riprese nelle cronache di questi giorni il Decreto Zan – oggi ancora disegno di legge – che prevede di estendere la norma sui reati d’odio e discriminazioni verso la comunità LGBTI, le donne e le persone con disabilità. Parlare solo di omofobia è, dunque, persino riduttivo quando si parla di questo disegno di legge: esso intende, infatti, allargare la tutela contro diverse forme discriminatorie, non l’omofobia soltanto. 

Diverse forme di discriminazione

Proviamo a capire come funziona l’atteggiamento discriminatorio di marca omofoba. Con l’aiuto del Dottor Converti, comprendiamo che esistono diverse forme di discriminazione omofoba: omofobia psicologica, relazionale, sociale, sanitaria, politica. Oggi il Dottor Converti ci parlerà  delle prime tre.

Omofobia Psicologica

Si tratta di un campo complesso, che possiamo provare a ridurre al dialogo interiore tra l’Io e l’Altro da sé. Se l’Io aggredisce l’Altro si parla di omofobia, che causa espulsione ed emarginazione. Quando l’aggressione continua, si produce nella vittima un Altro interiore che aggredisce il Sè. In questo caso il disagio interiore è maggiore (Minority Stress) e causa  l’aspettativa di rifiuto e l’evitamento sociale. A livello psicologico la paura – che causa evitamento e vergogna – potrebbe indurre il soggetto LGBTI persino all’autolesionismo o al suicidio.”

Omofobia Relazionale

“L’omofobia relazionale dipende dal comportamento sociale violento: il bullismo omo-trabsfobico. In questo caso sussistono dei ruoli ben definiti: da un lato il/la Leader, che decide la “Regola” del gruppo, dunque accoglie, rifiuta o indica il Capro Espiatorio; dall’altro il Capro Espiatorio, al contempo presente e rifiutato, e intorno al quale si innescano meccanismi complessi di stigmatizzazione a causa di una qualunque sua diversità. Vi sono infine i Gregari, che  sostengono il Leader omofobo, e gli Alleati che creano un’alleanza con la persona LGBTI affinché questa venga accolta.”

Omofobia Sociale

Una delle innumerevoli forme di omofobia sociale è l’Omofobia Giuridica, legata a tutte quelle leggi di marca discriminatoria che, in modi differenti, hanno segnato la Storia. Si pensi all’Editto di Giustiniano, per esempio, che eliminava il panteismo e condannava l’omosessualità maschile; oppure alle Leggi Vittoriane contro la comunità gay, estese in tutto il mondo attraverso il Commonwealth; o ancora all’articolo 175 del Codice Prussiano, derivato proprio dalle Leggi Vittoriane, che causò l’internamento degli omosessuali nei campi di concentramento nazista; o ancora alle recenti leggi russe e dei paesi ex-sovietici contro la “Propaganda LGBTI”.

Uguaglianza e diversità

Tradizioni, idee, e leggi discriminatorie esistono ancora in molti Paesi del mondo. Numerosi gruppi di persone vengono discriminati in seguito a un giudizio o una classificazione che non hanno alcuna base scientifica.  Anche in Sanità tuttavia,  attraverso Avicenna, Krafft-Ebing o Nicolosi, si perpetua l’idea falsa che amare, o sentirsi in un certo modo, sia una malattia mentale. Si sente spesso parlare di uguaglianza, ma l’uguaglianza deve riguardare esclusivamente i diritti e mai le persone! Ogni individuo deve infatti essere libero di sentirsi e mostrarsi diverso.

Carola Pulvirenti

Non solo numeri

La domanda di informazione statistica sui numerosi temi legati alla disabilità ha subito, negli ultimi anni, un radicale cambiamento. Oggi la ricerca sta diventando sempre più sofisticata, infatti si raccolgono dati sull’accessibilità degli ambienti, sull’informazione e le tecnologie a disposizione dei disabili, sull’accesso ai servizi sanitari e socio-assistenziali e via dicendo. Il dibattito che si è animato a livello internazionale ha, insomma, determinato un profondo rinnovamento prima negli strumenti di misurazione statistica della disabilità e di conseguenza, anche se non in modo risolutivo, nella percezione della stessa.

Il nuovo paradigma è stato formalizzato nella nuova classificazione internazionale della salute e della disabilità, l’International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF). In seguito anche una Convenzione Onu, ratificata anche dal nostro Paese, ha recepito tale rinnovamento, ed ha identificato i diritti soggettivi delle persone con disabilità e fornito indicazioni per interventi finalizzati al perfezionamento degli stessi.

Fotografia della situazione italiana

L’Istituto Nazionale di Statistica ha investito negli anni molte risorse sul tema della disabilità. Lo si apprende chiaramente dal resoconto dell’ultima  audizione del Presidente dell’Istituto, Gian Carlo Blangiardo. “La letteratura scientifica – scrive Blangiardo – ha mostrato che gli elementi di fragilità, che possono limitare lo sviluppo degli individui e il progresso sociale, sono molteplici e dipendono in larga misura dalla società e dal contesto in cui sono collocati.”

Nel nostro Paese, nel 2019, le persone con disabilità erano 3 milioni e 150 mila. Non solo: si stima che il 30,3% degli anziani abbia gravi difficoltà a svolgere le più semplici attività domestiche. Questo per non parlare delle attività che implicano una certa autonomia fisica, per esempio fare la spesa e spostarsi liberamente.

 

Le malattie invisibili

La gran parte della letteratura sul tema, però, si focalizza perlopiù sulle storie di coloro che presentano disabilità più manifeste, lasciando da parte tutto il resto della comunità. Viene da chiedersi, allora, quale spazio occupi, in questa vicenda, chi soffre delle cosiddette malattie invisibili. Soffrire di una malattia invisibile può significare dover continuamente spiegare al mondo i propri limiti non sempre visibili. Soffrire di una malattia invisibile significa dover combattere strenuamente per i propri diritti contro chi li nega altrettanto strenuamente e semplicemente perché non li vede.

 

Che fare?

Purtroppo i fatti parlano di un mondo che ancora non lascia al malato invisibile lo spazio adeguato e il giusto tempo. Anche la malattia invisibile ha forme visibilissime, se scoperte nei giorni in cui costringono, per esempio, a letto chi ne soffre. E poi, visibile/invisibile a chi? Questi concetti sono molto più problematici delle parole che li definiscono e, potremmo dire, dipendono non solo da cosa si vede, ma anche da come si guarda. C’è molta strada da percorrere ed è necessario chiedersi ora, subito, cosa fare per il presente e per il futuro. Sarebbe bellissimo se cominciasse tutto dalla scuola.

Carola Pulvirenti

Festa della mamma

Vogliamo celebrare la festa della mamma raccontando una storia vera, per l’esattezza un Case Report pubblicato alcuni anni fa. Il caso di una giovane mamma che ha accettato di rischiare la propria vita per mettere al mondo la creatura che portava in grembo. Tutte le mamme corrono dei rischi, la differenza sta però nel fatto che questa donna di ventisei anni sapeva di essere affetta da una rara malattia genetica, la malattia di von Willebrand (VWD). Si tratta di una coagulopatia ereditaria che può ridurre la quantità o la funzione del fattore di von Willebrand (VWF), proteina plasmatica fondamentale per la coagulazione del sangue, e provocare anche emorragie fatali.

La preoccupazione dei medici

Piastrine nel sangue

Fu proprio in virtù di questa patologia che si decise di far seguire la donna, durante la gravidanza, a un team multidisciplinare di ostetriche, ematologi e anestesisti. Non solo, in accordo con lei, i medici disposero meticolosi piani di cura per tutte le fasi gestazionali, incluso il post-partum.  La mamma fu sottoposta a controlli periodici e a continue verifiche dei livelli delle piastrine, proteine necessarie a evitare emorragie, sia interne che esterne all’organismo. 

La malattia non si ferma, la mamma neppure

Durante la gravidanza, quando i medici rilevarono una riduzione progressiva e inesorabile delle piastrine, decisero di indurle il travaglio in anticipo. L’obiettivo era proprio evitare un ulteriore peggioramento della trombocitopenia. Così, all’inizio del travaglio, vennero richieste quattro unità di piastrine.

Nonostante quanto si era predisposto, la paziente entrò poi in travaglio spontaneo. Le vennero subito trasfuse due unità di piastrine e la donna partorì un maschio sano di tre chili con un punteggio di Apgar di 9. La perdita di sangue al momento del parto risultò nella norma.

La diagnosi di una malattia rara

La rarità di queste patologie le rende molto difficili da gestire, anche perché spesso mancano le competenze per effettuare diagnosi corrette e tempestive. Ci auguriamo che questo raro caso possa fornire qualche indicazione in più sia ad ostetriche ed ematologi. I medici che hanno assistito questa donna raccomandano di includere la ricerca del fattore di von Willebrand negli esami da suggerire alle donne gravide che presentino trombocitopenia per la prima volta. Del resto, è opinione di molti medici che se la malattia di Von Willbrand di tipo piastrinico fosse sufficientemente investigata, sarebbe molto più comune di quanto lo è oggigiorno.

La mamma è uno sguardo d’amore e una carezza che cura. Da grandi impariamo a farne a meno ma, a qualunque età, ogni tanto un pensiero vola alla persona che ci ha dato la vita.”

Carola Pulvirenti

L’obesità: fattore di rischio per forme gravi di Covid-19

Studi recenti hanno dimostrato che l’obesità rappresenta un fattore di rischio di significativa importanza per le forme gravi di Covid-19. A tal proposito, la World Obesity Federation ha evidenziato un dato di grande rilievo. Dei 2.5 milioni di decessi per Covid-19 registrati entro la fine di febbraio 2021, 2.2 milioni si sono verificati in paesi in cui più della metà della popolazione è sovrappeso. Le persone obese avrebbero un rischio di contrarre il coronavirus 1.5 volte maggiore rispetto alle persone non obese. 2.1 volte maggiore sarebbe il rischio, per loro, di essere ricoverate in ospedale e 1.7 volte maggiore di finire in terapia intensiva. Anche il rischio di morte sarebbe più alto: circa 1.5 superiore rispetto ai normopeso.

Uno studio condotto in Messico

Vale la pena considerare gli esiti di uno studio recentemente condotto in Messico che ha passato in rassegna i decorsi clinici di oltre 15.000 pazienti Covid-19 ospedalizzati e non. Il risultato è stato un tasso di mortalità quasi triplo per i pazienti obesi. Non solo, se all’obesità si accompagnavano ipertensione, diabete o immunodeficienza questo fattore di rischio si faceva ancora più significativo. Il tasso di mortalità per Covid-19 in Messico sarebbe altissimo proprio perché lì tre quarti della popolazione al di sopra dei 20 anni è sovrappeso o obesa. 

Relazione tra IMC e severità della malattia

Dall’analisi condotta è, dunque, emersa una relazione tra Indice di Massa Corporea (IMC) e severità della malattia. Rischi più bassi si sono osservati nei pazienti normopeso e sovrappeso, mentre più complessa sarebbe la situazione per gli individui con IMC superiori a 30. Stando a questi dati, la necessità di ricovero aumenterebbe del 33% per IMC superiori a 45, mentre il rischio di morte del 60% per i pazienti con IMC più alto di 35.

Uno studio condotto in Gran Bretagna

Risultati simili sono stati riscontrati anche in uno studio effettuato in Gran Bretagna su circa 7 milioni di pazienti. Da questa analisi è emerso che vi è un aumento lineare del rischio di Covid-19 grave sia per chi è sottopeso che per chi è sovrappeso o obeso. Allo stesso modo, il rischio di ammissione in terapia intensiva è superiore per gli IMC maggiori di 23, ma inferiore per quelli al di sotto di questo valore.

ll ruolo dell’attività fisica

Inutile aggiungere che una regolare attività fisica riduce i fattori di rischio di contrarre forme severe di Covid-19. Un’analisi condotta in California, su poco meno di 50.000 casi positivi di Covid-19, ha evidenziato tra gli inattivi rischi di ospedalizzazione, ammissione in terapia intensiva e decesso significativamente più elevati rispetto a coloro che svolgevano almeno 150 minuti di attività fisica alla settimana. Questa ricerca apre il campo a nuove possibilità di studio, allo scopo di individuare dati predittivi di un maggior rischio di contrarre forme severe della malattia. La strada è ancora in salita, ma la scienza non si ferma.

BB

Coccole per tutti

La sessualità può essere meravigliosa a qualunque età, anche in vecchiaia. Tuttavia parlarne può creare disagio e scalpore. “Let’s Talk The Joy of Later Life Sex”, è la campagna sul sesso nella vecchiaia portata avanti dal noto fotografo di moda Rankin  con i suoi scatti a coppie di anziani in atteggiamenti intimi. L’aspetto cruciale della sessualità – al di là di quanto concerne la procreazione – è la relazione umana, il piacevole contatto che coinvolge non soltanto gli organi riproduttivi, ma la persona tutta. Tutto il corpo, ogni centimetro di esso, è interessato in questo misterioso processo. E, inutile dirlo, una relazione fisica appagante e sciolta gioca un ruolo fondamentale sotto ogni aspetto. Sia per la salute fisica ed emotiva, sia per il mantenimento della complicità con il partner e questo è un elemento chiave per una vita felice, ad ogni età.

Cosa cambia dopo i sessant’anni

Tuttavia il 60% degli ultrasessantacinquenni si sente a disagio nel parlare apertamente di sesso e intimità. Questo è il risultato di un sondaggio dell’ente benefico britannico Relate, che offre terapia relazionale e consulenza per coppie, famiglie e giovani. Per rompere questo tabù, Relate ha lanciato una nuova campagna chiamata “Let’s Talk The Joy of Later Life Sex”. La mente creativa è il noto fotografo di moda britannico Rankin. “Rankin ha filmato e fotografato cinque coppie anziane e una donna, nelle loro situazioni più intime, per far riflettere le persone sul sesso e sull’intimità in età avanzata”. – ha commentato Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”- Queste foto rappresentano Andrew e Mark, che stanno insieme da 31 anni, Roger e la sua compagna Chrissie, che ha subito una doppia mastectomia, o Daphne e Arthur, che si tengono ancora per mano mentre vanno a fare una passeggiata. “Abbiamo tutti bisogno di intimità ora più che mai. L’età è davvero solo un numero”, sottolinea Rankin, che ha girato la campagna gratuitamente. Il nostro amore e affetto non devono necessariamente diminuire con la vecchiaia. Secondo il fotografo, la pubblicità non ritrae adeguatamente l’intimità della vecchia generazione.

Carola Pulvirenti

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