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La risposta al vaccino anti-Covid in caso di terapia con Rituximab

Nelle persone con malattie autoimmuni, la terapia con Rituximab riduce drasticamente la risposta anticorpale ai vaccini mRNA contro il SARS-COV-2. Lo conferma uno studio pubblicato in questi giorni. Sottoporsi a vaccinazione dopo aver ricevuto una dose di Rituximab sarebbe quindi sconsigliato, almeno per i primi sei mesi dalla somministrazione del farmaco.

Cosa è accaduto durante la pandemia?

A dire il vero, cautele di questo tipo erano già incluse nelle linee guida per la vaccinazione dei pazienti con malattie immunomediate in terapia con immunosoppressori, pubblicate nel 2019. Prima di sottoporre il paziente alla terapia con Rituximab – si precisava – occorre attendere almeno un mese dopo il vaccino. Nonostante queste indicazioni, però, durante la pandemia si sono vaccinati pazienti sottoposti a Rituximab prima che trascorressero i tempi consigliati. Altri pazienti sono stati sottoposti a vaccinazione anti Covid senza che si aspettassero i sei mesi dalla terapia con Rituximab.

Gli effetti di Rituximab sulla risposta del vaccino

Sono stati i ricercatori dell’Hôpital Bicêtre di Parigi a presentare questo studio al Convergence 2021 dell’American College of Rheumatology (ACR). Il nucleo dello studio sarebbe la bassa risposta anticorpale al vaccino anti-Covid dei pazienti con malattie autoimmuni sottoposti a Rituximab. I ricercatori avrebbero analizzato tale risposta in pazienti sani e non, vaccinati con Pfizer-BioNTech, 28 and 56 giorni dopo la vaccinazione iniziale. Non solo. Il team ha messo in luce che i pazienti affetti da patologia autoimmune e sottoposti alla terapia monoclonale addirittura presenterebbero un rischio tre volte maggiore di morire per infezione da Covid-19. Si tratta di dati compatibili con altre ricerche presentati di recente all’ACR anche da investigatori israeliani. Nonostante l’incredibile efficacia dei vaccini ad mRNA, dunque, va tenuto conto che alcuni pazienti immunocompromessi non rispondono a questi vaccini allo stesso modo della popolazioni sana.

Una curiosa triade

Studi sperimentali hanno provato che, incredibilmente, la somministrazione di ormoni tiroidei (TSH) sia in grado di ridurre i danni di un infarto. In seguito, per esempio, ad infarto miocardico acuto (IMA), tali ormoni migliorerebbero la funzione miocardica. Oggi possono dirsi assodati i legami funzionali tra sistema cardiovascolare, ormoni tiroidei e vitamina D. Proprio pochi giorni fa uno studio ha dettagliato quelle che potrebbero essere le anomalie provocate da questa triade. Per esempio, al manifestarsi di un infarto, disturbi della tiroide anche minimi (ad es. Sindrome da T3 bassa), potrebbero associarsi a prognosi avversa.

Anche la vitamina D, quando non presente nelle giuste quantità, può causare patologie cardiovascolari. La carenza di questa sostanza, infatti, non è solo all’origine di problemi alle ossa, come si crede comunemente, ma di diverse altre patologie: diabete di tipo 2, neoplasie, malattie da  stress ossidativo (es. Hailey Hailey Disease), malattie infiammatorie (es. Sindrome di Sjögren), malattie autoimmuni e via dicendo.

Indaghiamo più nel dettaglio la fisiopatologia di questa triade – ormoni tiroidei, vitamina D e sistema cardiovascolare – che opera in modo così stretto.

La vitamina D e il sistema cardiovascolare

É noto che la vitamina D influenzi le malattie cardiometaboliche attraverso numerosi meccanismi: modulazione dell’attività muscolare, del sistema renina-angiotensina-aldosterone, dello stress ossidativo e della risposta infiammatoria. La grande novità consiste nel fatto che il rischio cardiovascolare oggi, per la prima volta, viene legato alla quantità ematica di vitamina D. Se i recettori della vitamina D sono presenti in una varietà di cellule e tessuti, incluse le cellule del muscolo cardiaco, non deve stupire più di tanto il dato che la vitamina D possa influenzare la contrattilità cardiaca. Proprio per queste ragioni la carenza cronica di questa sostanza predisporrebbe all’ipertensione e alla fibrillazione atriale e aumenterebbe, di conseguenza, il rischio di aritmie letali. Purtroppo, per ovviare a queste situazioni, non sempre basta l’assunzione di integratori a base di vitamina D: in moltissimi, infatti, in età adulta, sviluppano resistenza a questa sostanza.

Gli ormoni tiroidei e il cuore

Ampiamente riconosciuto è il ruolo degli ormoni tiroidei nel sistema cardiovascolare: lievi alterazione di questi ormoni possono aumentare il rischio di patologie cardiovascolari. Gli ormoni tiroidei, inoltre, giocando un ruolo cruciale nella regolazione di tutte le funzioni metaboliche del corpo umano, agiscono a livello cardiovascolare, influenzandone contrattilità cardiaca e resistenza vascolare sistemica. Non solo. Nelle malattie croniche, essi sono in grado di promuovere processi rigenerativi e riparativi ai fini di compensare condizioni di stress sistemico (Sabatino et al.,2014): in altre parole, sono in grado di avviare lo sviluppo di nuovi vasi sanguigni (angiogenesi), ridurre la morte cellulare (apoptosi) e migliorare la funzione ventricolare.

La vitamina D e le malattie della tiroide

L’apporto di vitamina D riveste, come attestano numerosi studi, un ruolo chiave anche nella predisposizione a molte malattie autoimmuni (sclerosi multipla, diabete di tipo 1, artrite reumatoide e via dicendo), anche della tiroide: tiroidite di Hashimoto, di Graves, post-partum. Non solo. Scarsi livelli ematici di vitamina D potrebbero giocare un ruolo persino sulla insorgenza e progressione del cancro della tiroide. Questa sostanza, di conseguenza, potrebbe rivelarsi utilissima nel trattamento di questa patologia, al netto di difficoltà ad assorbirla, come già accennato.

Il nostro corpo, insomma, non funziona per compartimenti stagni, ma esiste in funzione delle numerosissime interazioni tra le sostanze che in esso viaggiano. Per scoprirne i segreti profondi, è necessario proprio lavorare per decifrare queste interazioni, questo alfabeto nascosto.

Malattie autoimmuni e vaccino

Chi soffre di malattie autoimmuni, dati alla mano, conta un numero di casi di Covid-19 (e decessi) significativamente superiore rispetto alla popolazione generale. Oltretutto, una percentuale significativa di pazienti con malattia autoimmune in terapia immunosoppressiva non ha risposto o ha risposto in maniera non soddisfacente ai cicli vaccinali. Non è ancora chiaro se ciò sia attribuibile alla malattia autoimmune, ai farmaci immunosoppressivi assunti per curarla, o a entrambi. La notizia arriva da uno studio condotto di recente negli Stati Uniti, dove Anthony Fauci, direttore dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive Americano (NIAID), si è dichiarato speranzoso per gli sviluppi futuri della vicenda: “Siamo determinati a trovare modi per suscitare una risposta immunitaria protettiva ai vaccini in questa popolazione. Questo nuovo studio è un passo importante in quella direzione”.

Valutare l’efficacia di una terza dose

L’istituto nazionale di salute degli Stati Uniti, alla luce dei dati raccolti, ha dunque avviato uno studio clinico per valutare, nelle persone con malattia autoimmune, la risposta anticorpale a una dose extra di vaccino COVID-19. Lo studio – recentissimo! – valuterà anche se la sospensione della terapia immunosoppressiva può essere in grado di migliorare la risposta anticorpale al vaccino in questa popolazione. 

Terza dose approvata per i trapiantati

Di certo c’è che somministrare una dose extra di vaccino COVID-19 migliori la risposta immunitaria di chi ha subito trapianti e assume farmaci immunosoppressivi. Lo studio del NIAID che indaga ulteriormente su questo è ancora in corso. Proprio i recenti risultati sulla popolazione dei trapiantati suggeriscono che una dose extra di vaccino COVID-19 potrebbe aiutare la risposta immunitaria di persone con malattie autoimmuni che assumono farmaci immunosoppressivi. A questo scopo, la Food and Drug Administration ha recentemente modificato le autorizzazioni per l’uso di emergenza dei vaccini COVID-19 di Pfizer-BioNTech e Moderna per questi soggetti.

Il nuovo trial include anche persone con Pemfigo, Sclerosi Multipla, Artrite reumatoide

Anticorpi umani al microscopio

Il nuovo trial del NIAID, chiamato COVID-19 Booster Vaccine in Autoimmune Disease Non-Responders, inizialmente includerà persone con una delle seguenti cinque malattie autoimmuni: sclerosi multipla, pemfigo, artrite reumatoide, lupus eritematoso sistemico o sclerosi sistemica. Le terapie immunosoppressive comunemente portate avanti dalle persone con queste malattie, infatti, sono state associate a scarse risposte immunitarie ai vaccini. Il team dello studio arruolerà circa 600 persone che hanno avuto una risposta anticorpale negativa o scarsa ai vaccini Moderna, Pfizer-BioNTech o Johnson & Johnson e somministrerà loro terapie immunosoppressive quali acido micofenolico, metotrexato o farmaci che riducono le cellule B.

Valutazione della risposta anticorpale 

Tutti i partecipanti riceveranno una dose extra del vaccino COVID-19 ricevuto in origine. Quindi, alcuni partecipanti continueranno ad assumere immunosoppressori; altri, invece, sospenderanno l’assunzione degli stessi nell’arco di tempo precedente e successivo alla dose di vaccino. Quattro settimane dopo aver ricevuto la dose extra di vaccino, i medici valuteranno la loro risposta anticorpale. I partecipanti allo studio saranno seguiti per un totale di 13 mesi e i risultati preliminari sono attesi per novembre 2021.


Carola Pulvirenti

Per chi è prevista la terza dose vaccinale

“Il paese è entrato in un’altra ondata della pandemia di COVID-19, e la FDA è consapevole che le persone immunocompromesse sono particolarmente a rischio di malattie gravi. Dopo una revisione approfondita dei dati disponibili, la FDA ha determinato che questo piccolo gruppo vulnerabile può beneficiare di una terza dose dei vaccini Pfizer-BioNTech o Moderna” Lo ha recentemente affermato il commissario ad interim del ente regolatorio statunitense. Negli Stati Uniti è stato dunque autorizzato l’uso di una terza dose vaccinale negli individui immunocompromessi, come i trapiantati o coloro che seguono terapie immunosoppressive che determinano una compromissione del sistema immunitario simile a quella dei trapiantati.

Gli immunocompromessi sono più a rischio

Chi ha una grave compromissione del sistema immunitario risulta avere una ridotta capacità di combattere le infezioni e altre malattie, ed è particolarmente vulnerabile alle infezioni, compresa la COVID-19. La notizia riguarda le persone che sono immunocompromesse in modo simile a quelle che hanno subito un trapianto di organi solidi. Difatti non tutti gli individui che assumono farmaci immunosoppressori risultano  immunocompromessi. La compromissione del sistema immunitario varia in base a numerosi fattori come la tipologia, il dosaggio e la durata della terapia immunosoppressiva.

La FDA ha valutato le informazioni sull’uso di una terza dose dei vaccini Pfizer-BioNTech o Moderna, negli individui con una marcata compromissione del sistema immunitario, e ha determinato che la somministrazione di terze dosi di vaccino può aumentare la protezione in questa popolazione.

A questi pazienti occorre inoltre consigliare di mantenere le precauzioni fisiche per aiutare a prevenire la COVID-19. Inoltre, i contatti stretti di persone immunocompromesse dovrebbero essere vaccinati, se non vi sono controindicazioni specifiche, per fornire una maggiore protezione ai loro cari.

Consigliati anche gli anticorpi monoclonali

Quando una persona immunocompromessa contrae la Covid-19, l’indicazione della FDA è quella di valutare la possibilità di trattamento con anticorpi monoclonali. La FDA ha autorizzato trattamenti con anticorpi monoclonali per l’uso di emergenza per adulti e pazienti pediatrici positivi al Sars-Cov-2 e che sono ad alto rischio di progredire verso la malattia grave grave e/o l’ospedalizzazione. Gli anticorpi monoclonali sono molecole prodotte in laboratorio che agiscono come anticorpi sostitutivi. Possono aiutare il nostro sistema immunitario a riconoscere e rispondere più efficacemente al virus, rendendo più difficile per il virus riprodursi e causare danni.

Terza dose per immunocompromessi dai 12 anni in su

Il vaccino Pfizer-BioNTech è attualmente autorizzato per l’uso di emergenza in individui di età pari o superiore ai 12 anni, e il vaccino Moderna è autorizzato per l’uso di emergenza in individui di età pari o superiore ai 18 anni. Le autorizzazioni per questi vaccini sono state modificate per consentire la somministrazione di una terza dose a soggetti di età pari o superiore a 18 anni per Moderna e 12 anni per Pfizer che hanno subito un trapianto di organi solidi, o a cui sono state diagnosticate condizioni che sono considerate avere un livello equivalente di immunocompromissione. La somministrazione deve avvenire almeno 28 giorni dopo il regime a due dosi dello stesso vaccino.

Il Comitato consultivo sulle pratiche d’immunizzazione dell’organismo americano di sanità pubblica (CDC) si riunirà questo venerdì per discutere ulteriori raccomandazioni cliniche riguardanti gli individui immunocompromessi. Attendiamo nota ufficiale del ente regolatorio italiano (AIFA) che ha anticipato la notizia alcune settimane fa.

Carola Pulvirenti