Il 26 novembre 2021, nella meravigliosa Sala Zuccari in Senato, la professoressa Delia Goletti ha ricevuto il premio She Made A Difference – Donna Leader. La Goletti è medico specializzato in malattie infettive, responsabile dell’Unità di ricerca traslazionale dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Spallanzani di Roma e docente di Patologia Generale alla Facoltà di Medicina dell’Università Unicamillus di Roma.

La rete europea per lo sviluppo delle donne leader

Il premio annuale She Made A Difference – Donna Leader, è organizzato dalla delegazione romana dell’European Women’s Management Development Network (EWMD). Si tratta di una rete di professioniste attivamente impegnate nella condivisione di esperienze e pratiche di eccellenza. EWMD Italia premia annualmente donna che si distinguono per meriti nella propria professione, negli ambiti più disparati. La mission di questo network è intercettare una rappresentanza di donne in posizioni apicali ai fini di implementare modelli organizzativi che ne favoriscano la crescita.

Ricercatrice italiana di fama internazionale

Prof.ssa Delia Goletti

La professoressa Delia Goletti è una ricercatrice annoverata fra i migliori scienziati italiani, autrice di un brevetto nell’ambito della tubercolosi di cui si occupa da anni. Da anni lavora anche allo studio dell’echinococcosi cistica e dei rischi infettivi legati all’uso dei farmaci biologici. Con l’arrivo della pandemia, la professoressa Goletti ha indirizzato il suo team allo studio di numerosi argomenti legati al Sars-Cov-2 e alla malattia da esso provocata.

Fra le sue pubblicazioni più recenti vi è un articolo – pubblicato sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine – che valuta il ruolo del Barictinib come terapia per COVID-19.  Di grande rilievo anche quello che valuta la messa a punto di un sistema di laboratorio per rilevare la risposta immunitaria T-specifica a SARS-CoV-2. Il sistema, usato anche nei pazienti reumatologici o con sclerosi multipla in terapia con farmaci immunomodulanti e vaccinati contro COVID-19, ha permesso di dimostrare che la risposta vaccinale era presente anche se con magnitudine diversa a seconda del farmaco immunomodulante usato.

Delia Goletti Made A Difference

Chiediamoci quindi perché Delia Goletti fa la differenza rispetto a molte altre professioniste del mondo medico. Per certo, come i più grandi ricercatori, Delia ha più domande che risposte. La sua attività scientifica non solo richiede molte ore di studio, ma anche grande curiosità. Profondo il rispetto che porta ai suoi pazienti, la sua capacità di accogliere e ascoltare tutte le professionalità con cui collabora. In occasione della premiazione, la professoressa Goletti ha raccontato – emozionando l’uditorio – il suo percorso professionale fino alle grandi collaborazioni, come quella con Antony Fauci, con cui ha lavorato quattro anni ai tempi della pandemia HIV. Insomma qual è il segreto di questo grande successo? “Ascoltare i pazienti,” sostiene la Goletti, “perché sono i pazienti che hanno tutte le domande scientifiche cui vale la pena rispondere.”

Soffitto della Sala Zuccari, Palazzo Madama, Roma.

Covid-19: e chi non può vaccinarsi?

La campagna vaccinale continua a salvare vite, ma purtroppo una parte significativa della popolazione mondiale per motivi di salute non può vaccinarsi. Esiste oggi una terapia contro il Covid per tutelare queste persone? Molte di esse sono già largamente utilizzate, ma si limitano a contrastare i danni dell’infezione da Covid, non essendo in grado di impedire la replicazione del virus. Più interessante per il suo meccanismo d’azione sembrerebbe, invece, la terapia antivirale, su cui diverse case farmaceutiche stanno attivamente lavorando.

La terapia anti-Covid disponibili oggi in Italia

L’Organizzazione Mondiale della Sanità aggiorna regolarmente le linee guida per la gestione clinica dei pazienti affetti da Covid-19. Ad oggi, però, i farmaci consigliati sono in grado soltanto di contrastare gli effetti dell’infezione, prima fra tutti la grave reazione infiammatoria sistemica. Questi farmaci sono gli antagonisti dei recettori dell’Interleuchina 6 – Tocilizumab e Sarilumab – per i pazienti con Covid-19 severo o critico; e il Regeneron – Casirivimab e Imdevimab – per i pazienti con forme lievi, ma a rischio di progredire verso l’ospedalizzazione, nonché per i pazienti con Covid severo o critico che non abbiano ancora sviluppato gli anticorpi contro il virus. In qualche caso, l’OMS fornisce indicazioni anche sull’utilizzo di corticosteroidi, sconsigliati, però, nelle forme lievi di Covid-19 perché in grado di favorire la replicazione del virus.

La terapia antivirale

Il limite di questi farmaci, come annunciato, starebbe nel fatto che si limitano a migliorare le implicazioni di una infezione già in corso. La grande novità nella gestione della infezione da Covid-19 consisterebbe, invece, nella terapia antivirale. La scoperta è delle case farmaceutiche Merck e Pfizer, che hanno di recente prodotto delle compresse in grado di limitare la replicazione del virus ben prima che esso possa danneggiare l’organismo che lo ospita. Si tratterebbe, infatti, proprio di inibitori delle proteasi, enzimi necessari ai virus per replicarsi. Bloccando questi enzimi, il virus si replicherebbe molto meno e l’organismo avrebbe modo di contrastarlo. Questo farmaco non è stato ancora distribuito in Italia, ma per altri scopi è stato già utilizzato nel nostro paese: in passato, ha rivoluzionato le cure di due gravi malattie come epatite C e HIV.

Dai primi risultati, sembrerebbe cruciale il momento della somministrazione di queste compresse. Risultati migliori, infatti, si sono ottenuti quando somministrate nei primi giorni dalla comparsa dei sintomi dell’infezione da Covid-19.

Ha senso vaccinarsi?

Finora, queste nuove terapie sono state sperimentate solo in soggetti a rischio come i non vaccinati che avevano qualche patologia. Sono in corso, però, nuovi studi clinici su popolazioni di persone vaccinate e che non hanno particolari fattori di rischio per la forma grave di Covid-19. Inoltre, si intende verificare l’efficacia di questi farmaci quando somministrati a chi convivesse con una persona positiva al Covid-19. Sarà bene, in questo contesto, chiarire che questi nuovi farmaci non sostituiscono i vaccini su cui gli scienziati di tutto il mondo continuano attivamente a lavorare.

La risposta al vaccino anti-Covid in caso di terapia con Rituximab

Nelle persone con malattie autoimmuni, la terapia con Rituximab riduce drasticamente la risposta anticorpale ai vaccini mRNA contro il SARS-COV-2. Lo conferma uno studio pubblicato in questi giorni. Sottoporsi a vaccinazione dopo aver ricevuto una dose di Rituximab sarebbe quindi sconsigliato, almeno per i primi sei mesi dalla somministrazione del farmaco.

Cosa è accaduto durante la pandemia?

A dire il vero, cautele di questo tipo erano già incluse nelle linee guida per la vaccinazione dei pazienti con malattie immunomediate in terapia con immunosoppressori, pubblicate nel 2019. Prima di sottoporre il paziente alla terapia con Rituximab – si precisava – occorre attendere almeno un mese dopo il vaccino. Nonostante queste indicazioni, però, durante la pandemia si sono vaccinati pazienti sottoposti a Rituximab prima che trascorressero i tempi consigliati. Altri pazienti sono stati sottoposti a vaccinazione anti Covid senza che si aspettassero i sei mesi dalla terapia con Rituximab.

Gli effetti di Rituximab sulla risposta del vaccino

Sono stati i ricercatori dell’Hôpital Bicêtre di Parigi a presentare questo studio al Convergence 2021 dell’American College of Rheumatology (ACR). Il nucleo dello studio sarebbe la bassa risposta anticorpale al vaccino anti-Covid dei pazienti con malattie autoimmuni sottoposti a Rituximab. I ricercatori avrebbero analizzato tale risposta in pazienti sani e non, vaccinati con Pfizer-BioNTech, 28 and 56 giorni dopo la vaccinazione iniziale. Non solo. Il team ha messo in luce che i pazienti affetti da patologia autoimmune e sottoposti alla terapia monoclonale addirittura presenterebbero un rischio tre volte maggiore di morire per infezione da Covid-19. Si tratta di dati compatibili con altre ricerche presentati di recente all’ACR anche da investigatori israeliani. Nonostante l’incredibile efficacia dei vaccini ad mRNA, dunque, va tenuto conto che alcuni pazienti immunocompromessi non rispondono a questi vaccini allo stesso modo della popolazioni sana.

Una curiosa triade

Studi sperimentali hanno provato che, incredibilmente, la somministrazione di ormoni tiroidei (TSH) sia in grado di ridurre i danni di un infarto. In seguito, per esempio, ad infarto miocardico acuto (IMA), tali ormoni migliorerebbero la funzione miocardica. Oggi possono dirsi assodati i legami funzionali tra sistema cardiovascolare, ormoni tiroidei e vitamina D. Proprio pochi giorni fa uno studio ha dettagliato quelle che potrebbero essere le anomalie provocate da questa triade. Per esempio, al manifestarsi di un infarto, disturbi della tiroide anche minimi (ad es. Sindrome da T3 bassa), potrebbero associarsi a prognosi avversa.

Anche la vitamina D, quando non presente nelle giuste quantità, può causare patologie cardiovascolari. La carenza di questa sostanza, infatti, non è solo all’origine di problemi alle ossa, come si crede comunemente, ma di diverse altre patologie: diabete di tipo 2, neoplasie, malattie da  stress ossidativo (es. Hailey Hailey Disease), malattie infiammatorie (es. Sindrome di Sjögren), malattie autoimmuni e via dicendo.

Indaghiamo più nel dettaglio la fisiopatologia di questa triade – ormoni tiroidei, vitamina D e sistema cardiovascolare – che opera in modo così stretto.

La vitamina D e il sistema cardiovascolare

É noto che la vitamina D influenzi le malattie cardiometaboliche attraverso numerosi meccanismi: modulazione dell’attività muscolare, del sistema renina-angiotensina-aldosterone, dello stress ossidativo e della risposta infiammatoria. La grande novità consiste nel fatto che il rischio cardiovascolare oggi, per la prima volta, viene legato alla quantità ematica di vitamina D. Se i recettori della vitamina D sono presenti in una varietà di cellule e tessuti, incluse le cellule del muscolo cardiaco, non deve stupire più di tanto il dato che la vitamina D possa influenzare la contrattilità cardiaca. Proprio per queste ragioni la carenza cronica di questa sostanza predisporrebbe all’ipertensione e alla fibrillazione atriale e aumenterebbe, di conseguenza, il rischio di aritmie letali. Purtroppo, per ovviare a queste situazioni, non sempre basta l’assunzione di integratori a base di vitamina D: in moltissimi, infatti, in età adulta, sviluppano resistenza a questa sostanza.

Gli ormoni tiroidei e il cuore

Ampiamente riconosciuto è il ruolo degli ormoni tiroidei nel sistema cardiovascolare: lievi alterazione di questi ormoni possono aumentare il rischio di patologie cardiovascolari. Gli ormoni tiroidei, inoltre, giocando un ruolo cruciale nella regolazione di tutte le funzioni metaboliche del corpo umano, agiscono a livello cardiovascolare, influenzandone contrattilità cardiaca e resistenza vascolare sistemica. Non solo. Nelle malattie croniche, essi sono in grado di promuovere processi rigenerativi e riparativi ai fini di compensare condizioni di stress sistemico (Sabatino et al.,2014): in altre parole, sono in grado di avviare lo sviluppo di nuovi vasi sanguigni (angiogenesi), ridurre la morte cellulare (apoptosi) e migliorare la funzione ventricolare.

La vitamina D e le malattie della tiroide

L’apporto di vitamina D riveste, come attestano numerosi studi, un ruolo chiave anche nella predisposizione a molte malattie autoimmuni (sclerosi multipla, diabete di tipo 1, artrite reumatoide e via dicendo), anche della tiroide: tiroidite di Hashimoto, di Graves, post-partum. Non solo. Scarsi livelli ematici di vitamina D potrebbero giocare un ruolo persino sulla insorgenza e progressione del cancro della tiroide. Questa sostanza, di conseguenza, potrebbe rivelarsi utilissima nel trattamento di questa patologia, al netto di difficoltà ad assorbirla, come già accennato.

Il nostro corpo, insomma, non funziona per compartimenti stagni, ma esiste in funzione delle numerosissime interazioni tra le sostanze che in esso viaggiano. Per scoprirne i segreti profondi, è necessario proprio lavorare per decifrare queste interazioni, questo alfabeto nascosto.