Ritagliare i geni difettosi

Trovare ed eliminare i geni difettosi permetterà di curare malattie genetiche che oggi non hanno una risposta terapeutica adeguata. Presto sarà possibile grazie ad una tecnologia altamente innovativa chiamata CRISPR-Cas9. L’acronimo significa “Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats”, ovvero sequenze geniche che si ripetono a intervalli regolari. Il CRISPR si basa sulla combinazione di due elementi: un enzima in grado di ‘ritagliare’ i geni (detto Cas) e un RNA guida che si appaia al DNA per indicare all’enzima il punto in cui tagliare. Qualunque tipo di cellula vegetale, animale, inclusa quella umana, potrà essere modificata geneticamente.

I campi di applicazione

I campi di applicazione ex vivo, sull’uomo, sono già un fatto. Nel 2021, per la prima volta, gli scienziati hanno somministrato per via endovenosa una terapia basata su CRISPR nel corpo di sei persone affette da amiloidosi da accumulo di transtiretina con polineuropatia. Il trattamento ha ridotto significativamente i livelli della proteina TTR anomala che si accumula progressivamente nei tessuti danneggiandoli. I primi risultati dello studio sono stati pubblicati a fine giugno sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine.

Come funziona?

Lo strano nome del CRISPR deriva da un meccanismo immunitario che alcuni organismi unicellulari (come i batteri) utilizzano per difendersi dai virus. Questi organismi contengono dei frammenti di RNA-guida noti come CRISPR, che funzionano come delle sentinelle molecolari riconoscendo le sequenze di DNA estraneo. Una volta riconosciuto e agganciato il DNA estraneo, le CRISPR guidano su di esso un enzima detto Cas (CRISPR-associated) che, funzionando come un paio di forbici, taglia il DNA intruso, impedendone la replicazione.

Il Premio Nobel per la Chimica

La scoperta – cui già si lavorava dal 2012 – è valsa lo scorso anno il Premio Nobel per la Chimica a due donne. Emmanuelle Charpentier, Direttrice del Max Planck Unit for the Science of Pathogens a Berlino, e Jennifer A. Doudna, Professoressa all’University of California (Berkeley). La rivoluzionaria promessa di CRISPR/Cas9 è il trattamento di tutta una serie di patologie a base genetica per cui prima non era neppure possibile concepire un approccio terapeutico.

Possibili errori del CRISPR

Gli sviluppi di questo studio sono in continua evoluzione, ma è chiaro che non presenta solo  grandi benefici. Le potenzialità offerte da questa forbice molecolare, detta CRISPR, sono ad oggi frenate dagli errori di taglio – detti off-target, cioè fuori bersaglio – che avvengono sul genoma umano durante il suo utilizzo. Molti studi sono ancora necessari per portare un agente terapeutico come il CRISPR a colpire esclusivamente il suo bersaglio. Inutile dire che una partita importantissima è quella che si gioca a livello etico e che richiederebbe una discussione a parte per le importanti questioni che solleverebbe.

Malattie autoimmuni e vaccino

Chi soffre di malattie autoimmuni, dati alla mano, conta un numero di casi di Covid-19 (e decessi) significativamente superiore rispetto alla popolazione generale. Oltretutto, una percentuale significativa di pazienti con malattia autoimmune in terapia immunosoppressiva non ha risposto o ha risposto in maniera non soddisfacente ai cicli vaccinali. Non è ancora chiaro se ciò sia attribuibile alla malattia autoimmune, ai farmaci immunosoppressivi assunti per curarla, o a entrambi. La notizia arriva da uno studio condotto di recente negli Stati Uniti, dove Anthony Fauci, direttore dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive Americano (NIAID), si è dichiarato speranzoso per gli sviluppi futuri della vicenda: “Siamo determinati a trovare modi per suscitare una risposta immunitaria protettiva ai vaccini in questa popolazione. Questo nuovo studio è un passo importante in quella direzione”.

Valutare l’efficacia di una terza dose

L’istituto nazionale di salute degli Stati Uniti, alla luce dei dati raccolti, ha dunque avviato uno studio clinico per valutare, nelle persone con malattia autoimmune, la risposta anticorpale a una dose extra di vaccino COVID-19. Lo studio – recentissimo! – valuterà anche se la sospensione della terapia immunosoppressiva può essere in grado di migliorare la risposta anticorpale al vaccino in questa popolazione. 

Terza dose approvata per i trapiantati

Di certo c’è che somministrare una dose extra di vaccino COVID-19 migliori la risposta immunitaria di chi ha subito trapianti e assume farmaci immunosoppressivi. Lo studio del NIAID che indaga ulteriormente su questo è ancora in corso. Proprio i recenti risultati sulla popolazione dei trapiantati suggeriscono che una dose extra di vaccino COVID-19 potrebbe aiutare la risposta immunitaria di persone con malattie autoimmuni che assumono farmaci immunosoppressivi. A questo scopo, la Food and Drug Administration ha recentemente modificato le autorizzazioni per l’uso di emergenza dei vaccini COVID-19 di Pfizer-BioNTech e Moderna per questi soggetti.

Il nuovo trial include anche persone con Pemfigo, Sclerosi Multipla, Artrite reumatoide

Anticorpi umani al microscopio

Il nuovo trial del NIAID, chiamato COVID-19 Booster Vaccine in Autoimmune Disease Non-Responders, inizialmente includerà persone con una delle seguenti cinque malattie autoimmuni: sclerosi multipla, pemfigo, artrite reumatoide, lupus eritematoso sistemico o sclerosi sistemica. Le terapie immunosoppressive comunemente portate avanti dalle persone con queste malattie, infatti, sono state associate a scarse risposte immunitarie ai vaccini. Il team dello studio arruolerà circa 600 persone che hanno avuto una risposta anticorpale negativa o scarsa ai vaccini Moderna, Pfizer-BioNTech o Johnson & Johnson e somministrerà loro terapie immunosoppressive quali acido micofenolico, metotrexato o farmaci che riducono le cellule B.

Valutazione della risposta anticorpale 

Tutti i partecipanti riceveranno una dose extra del vaccino COVID-19 ricevuto in origine. Quindi, alcuni partecipanti continueranno ad assumere immunosoppressori; altri, invece, sospenderanno l’assunzione degli stessi nell’arco di tempo precedente e successivo alla dose di vaccino. Quattro settimane dopo aver ricevuto la dose extra di vaccino, i medici valuteranno la loro risposta anticorpale. I partecipanti allo studio saranno seguiti per un totale di 13 mesi e i risultati preliminari sono attesi per novembre 2021.


Carola Pulvirenti

Molte persone risultano carenti di Vitamina D e, pur assumendone alte dosi, non riescono a correggere questo problema. Uno studio pubblicato pochi giorni fa, spiegherebbe il motivo di questa condizione: alcuni individui hanno una resistenza alla vitamina D. Ce ne parla il Dottor Carlberg, professore di biochimica che, con i suoi colleghi dell’università della Finlandia orientale, ha individuato e analizzato alcuni biomarcatori utili per comprendere questo meccanismo. Il professore avrebbe dimostrato che l’assunzione vitamina D3 non è sempre in grado di esercitare gli effetti previsti, neanche aumentando la dose, perché vi è una variabilità da persona a persona.

Il 24% delle persone studiate non metabolizza bene la Vitamina D

I ricercatori hanno raggruppato i pazienti in base alla loro capacità di utilizzare la vitamina D3. Il 24% dei pazienti è risultato avere una bassa risposta all’integratore, il 51% una risposta media, ed il 25% una buona risposta. Questi dati hanno dato conferma che esiste uno spettro di diversa reattività alla vitamina D, con circa il 25% di popolazione che non risponde adeguatamente alle dosi convenzionali.

La resistenza ereditaria alla vitamina D

L‘idea della resistenza alla vitamina D è stata proposta per la prima volta nel 1937 da Albright, Butler e Bloomberg, sulla base dell’osservazione che, in rari casi di rachitismo nei bambini, erano necessarie dosi molto elevate di vitamina D. Gli individui resistenti alla vitamina D richiederebbero quindi dosi molto elevate della stessa, per ottenere una risposta fisiologica adeguata. Tuttavia la resistenza ereditaria alla vitamina D è molto rara.

La resistenza acquisita alla vitamina D

L‘ipotesi, studiata in questo articolo, riguarda una forma non ereditaria di resistenza alla vitamina D. Si tratta di una resistenza acquisita, che potrebbe promuovere lo sviluppo di malattie autoimmuni. Tale forma di resistenza si svilupperebbe durante l’invecchiamento, a causa di fattori genetici ma anche ambientali, pertanto sarebbe più comune di quella ereditaria. La resistenza acquisita alla Vitamina D3 sembra essere quindi legata ad un’ alterazione genetica, ma innescata da fattori ambientali come lo stress cronico, l’infezione dovuta ad un microrganismo patogeno, la bassa esposizione al sole, l’invecchiamento o l’inquinamento. Questi stessi fattori sono associati anche allo sviluppo di malattie autoimmuni.

Terapia della resistenza alla vitamina D

Attualmente non esistono terapie affidabili per correggere la resistenza alla vitamina D. L’unica strategia conosciuta è il protocollo Coimbra, che prevede la somministrazione di vitamina D ad alte dosi. L’efficacia del protocollo Coimbra non ha basi obiettive, tuttavia alcuni pazienti riferiscono un miglioramento dei sintomi. Questo approccio necessita inoltre di precauzioni comportamentali e non è esente da controindicazioni ed effetti collaterali, come ad esempio l‘ipercalcemia, una condizione in cui il livello di calcio nel sangue è superiore alla norma. Troppo calcio nel sangue può indebolire le ossa, creare calcoli renali, interferire con il funzionamento del cuore e del cervello e dare disturbi di varia natura. Si tratta quindi di una possibilità da non prendere alla leggera anche perché, purtroppo, non risolve il problema alla base. E’ auspicabile che, grazie all’innovazione tecnologica, si possa un giorno arrivare a disinnescare i meccanismi che provocano la resistenza alla vitamina D. Tuttavia è sempre possibile intervenire sui fattori di rischio modificabili, contrastando lo stress cronico e facendo lunghe passeggiate all’aria aperta.

Carola Pulvirenti

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